Vite ribelli, bellissimi esperimenti ilRecensore.it
Vite ribelli, bellissimi esperimenti ilRecensore.it

Vite ribelli, bellissimi esperimenti di Saidiya Hartman

Vite ribelli, bellissimi esperimenti

 Cosa significa desiderare una vita bella quando la sopravvivenza stessa non può essere data per scontata? Come si fa a immaginare la libertà quando si è costrette a sottostare alle regole dell’esclusione?

Due o tre generazioni dopo la fine della schiavitù, le giovani donne nere scoprivano la città e le sue promesse e rifiutavano i ruoli angusti che la società aveva loro assegnato. Prima degli scrittori, prima dei predicatori e degli studiosi di questioni razziali, le ragazze nere si interrogavano sul senso profondo della libertà e scoprivano che era possibile portare avanti una vera e propria rivoluzione agendo sull’unica dimensione di cui potevano avere il controllo, quella intima.

Per descrivere il mondo attraverso i loro occhi, Saidiya Hartman parte dagli archivi – fascicoli della polizia, articoli, album di famiglia, resoconti dei sociologi – da cui trae l’ossatura delle vicende che racconta.

Vite ribelli, bellissimi esperimenti racconta storie di amore liberissimo, di madri «single» ma tutt’altro che sole, di lavori umilianti rifiutati e di affetti nati dentro le stanze di un carcere femminile.

Riportare alla luce ciò che è stato cancellato o rimosso, dare la parola al silenzio: questo è il lavoro straordinario che Hartman svolge con rigore e partecipazione, incrociando le storie di queste donne disobbedienti a quelle di personaggi noti come Billie Holiday, Paul Laurence Dunbar e W.E.B. Du Bois, ma lasciando che sia sempre «il coro» ad occupare il centro della scena.

Una breve precisazione: nella recensione verranno usate parole quali “bianchi” e “neri” non per semplificare l’argomento ma perché sono questi i termini adottati dall’autrice per esporre il suo racconto.

Nel libro “Vite ribelli, bellissimi esperimenti” Saidiya Hartman cerca di ridare voce ad una categoria di persone trascurate e sottovalutate dalla Storia, le donne nere di bassa estrazione sociale che hanno vissuto nelle città di Philadelphia e New York tra il 1890 e il 1935. 

L’intento dichiarato dell’autrice non è solo quello di porre in luce la discriminazione sistematica che la popolazione nera subiva attraverso divieti e vessazioni da parte del governo e della popolazione bianca, ma di esaltare il contributo che le donne nere hanno avuto nell’ideare nuove forme di rapporti tra i generi, di sperimentazione sessuale ed emancipazione femminile. 

Hartman intende riscattare la dignità di persone che all’epoca sono state considerate più che altro un problema per la società e afferma: “Ho creato una contro-narrazione scevra da quei giudizi e quelle classificazioni che hanno sottoposto le donne nere a sorveglianza, arresti, condanne e reclusioni, e presento qui uno scorcio sui bellissimi esperimenti – volti a rendere la vita una forma d’arte – intrapresi da persone spesso descritte come promiscue, sconsiderate, selvagge e ribelli. Il tentativo è recuperare il terreno insurrezionale di queste vite; riesumare dai fascicoli l’aperta rivolta; affrancare gli eccessi, il rifiuto, il mutuo appoggio e l’amore libero dalla devianza, dalla criminalità, dalla patologia; rivendicare la maternità libera (scelta riproduttiva); l’intimità al di fuori dell’istituzione del matrimonio, le passioni proibite e queer; dare luce alla profonda immaginazione, all’anarchia quotidiana di ragazze di colore ordinarie, che non solo è stata ignorata ma è quasi inimmaginabile.

Nel periodo storico che è stato preso in considerazione la vita per una donna di colore non era per niente facile.

La maggior parte dei lavori era loro preclusa e il lavoro domestico era considerato uno dei pochissimi sbocchi ai quali era loro concesso accedere per poter mantenere poveramente i figli e spesso anche un marito disoccupato che faceva ancora più fatica di lei a trovare un impiego.

In più, in quanto donna, era sottoposta a maggiori pericoli perché poco tutelata giuridicamente e perché conduceva una vita che la portava a dover vivere di più in strada, dato che gli alloggi disponibili erano spesso piccoli e in condizioni miserevoli.

Questa mancanza di opportunità rendeva i giovani neri, sia uomini che donne amareggiati e in piena rivolta contro il sistema statale che li opprimeva. 

“Nello slum, dal 10 al 25% delle unioni era costituito da unioni di fatto, convivenze temporanee e liaison che duravano dai due ai dieci anni. Questi vincoli familiari venivano considerati disastrati e immorali, l’ambiente domestico era ritenuto malsano e pericoloso per la società.  (…) La crescente presenza nera a New York ingigantiva la minaccia delle donne di colore e dei pericoli sessuali posti dalla gioventù nera che si riversava in città. Ogni decennio che passava la popolazione raddoppiava. (…) Muovendosi per la città a loro piacimento e socializzando liberamente con gli sconosciuti le giovani donne nere rischiavano di essere molestate, arrestate e recluse."

Il ghetto nero era considerato un incubatore di vizi dato che diversi luoghi pubblici come i cabaret accoglievano una clientela mista e ciò permetteva una mescolanza tra razze che preoccupava enormemente l’élite di governo perché secondo loro portatrice di caos e perdita di moralità. “Era lo status di una persona a determinare se un atto intimo, una serata passata con un estraneo o la propensione ad andarsene in giro per strada erano reati perseguibili.

Hartman mette molta passione nel cercare di riscattare le scelte di vita e la dignità della popolazione nera, si immedesima e soffre con le sue protagoniste delle brutture e delle umiliazioni che si sono riversate su di loro.

Ci sbatte giustamente in faccia il pregiudizio a cui venivano sottoposti i neri e lo fa con dovizia di particolari. Devo ammettere però che, nella foga di dare giustizia a questa parte di società, in alcuni punti si rivela avara di comprensione verso altri gruppi di persone. 

Si indigna per esempio del comportamento tenuto dall’élite nera e ne parla in questi termini: “Questo esiguo ceto elevato evitava i quartieri peggiori, quando andava in giro con le carrozze eleganti; preferiva mantenere le distanze dai ranghi inferiori, per quanto possibile. (…) Qualsivoglia orgoglio razziale suscitato dal loro successo era misto a delusione. La loro ossessione per l’autorealizzazione e la ricerca maniacale del benessere e della ricchezza li rendevano ciechi alle condizioni dei ceti più bassi, a parte il fastidio e l’imbarazzo che provavano quando scoppiava una crisi o un nuovo scandalo generato da un criminale, ma per il quale sarebbero stati loro a pagare.

Ora, per quanto spiacevole, trovo che questo sia un comportamento prevedibile e dettato da un senso di sopravvivenza che faceva in modo che la disponibilità economica mitigasse gli effetti peggiori della discriminazione.

In un altro passo scopriamo che è solo nel 1924 ( con il “Johnson Immigration Act”) che viene a consolidarsi una vera differenziazione tra razza bianca e nera, e che fino ad allora per esempio gli immigrati ebrei o italiani non erano da considerarsi bianchi. Queste sono le stesse persone che vivevano accanto al quartiere nero.

Il punto centrale, a mio parere, non risiede solo nel colore della pelle quanto nell’aspetto che accomuna tutta questa gente: la povertà.

Se i neri erano considerati gli ultimi degli ultimi i loro vicini di casa, in quanto ultimi, non se la passavano poi tanto meglio.

L’élite di governo era preoccupata più che altro che i vari gruppi etnici socializzassero e si coalizzassero tra loro e ciò li portò a creare misure atte a separare i diversi corpi sociali. Il “Divide et Impera” divenne quindi un espediente usato dal governo americano per controllare la popolazione povera ritenuta potenzialmente pericolosa provocando rivalità e dissidi. Niente di più comune nella storia dell’umanità. 

Un altro gruppo sociale che non gode della minima stima da parte dell’autrice è quello dei riformisti sociali che volevano migliorare le vite della popolazione nera.

Capisco che sono diversi i casi in cui certe associazioni, attraverso una falsa superiorità morale, si approfittarono della debolezza di chi pretendevano di aiutare ma fare di tutta l’erba un fascio mi sembra mostrare una certa parzialità di giudizio. Si scaglia per esempio contro la “Tenement House Act”, una legge del 1901 voluta “da riformatori progressisti, amici dei neri e figli e figlie di abolizionisti, determinati a proteggere i poveri e ridurre gli effetti del capitalismo grazie a gabinetti puliti, acqua calda, riscaldamento a vapore e scale antincendio.”

I riformatori sociali che avevano pensato questa legge erano convinti che i problemi sociali derivassero dalle condizioni ambientali dei poveri e che un  miglioramento in tal senso li avrebbe avvantaggiati.

Purtroppo l’applicazione parziale e inopportuna delle prescrizioni contenute nella legge (le norme edilizie venivano applicate in modo irregolare e non venivano intraprese azioni legali contro i padroni di casa) la resero inefficace e addirittura nefasta perchè diedero la possibilità alla polizia di entrare e perquisire le case non ritenute adatte ad una vita dignitosa.

Ora, per quanto il risultato ottenuto si sia dimostrato assolutamente controproducente, non capisco perché non si dovrebbero valutare diversamente le buone intenzioni che hanno portato alla scrittura di questa norma con l’utilizzo strumentale che ne è stato fatto da parte di alcuni organi di potere.

In altre occasioni Hartman si mostra molto indulgente verso comportamenti che certo non hanno beneficiato le donne nere.

Quando parla dell’uso di diversi uomini di colore di vivere a spese della loro donna dice: “Questa eccessiva generosità era una caratteristica della razza nera. Anche quando venivano usate e abbandonate, le donne nere perdonavano troppo facilmente chi faceva loro un torto o le deludeva, anche le più toste erano di manica larga. Questa capacità di condividere tutto ciò che avevano e non aspettarsi nulla in cambio trasformava le case private in luoghi di rifugio che accoglievano chiunque, fregandosene dei giudizi su chi fosse degno e chi buono a nulla.”

L’autrice pone l’accento sulla “generosità” della razza, trascurando però il fatto che questi uomini non si siano comportati certo come alleati nei confronti delle loro compagne che spesso si sono trovate a caricarsi sulle spalle il peso del mondo. 

In ultima analisi trovo che l’autrice abbia il merito di porre in luce aspetti quasi sempre trascurati dalla storiografia ufficiale.

Nel suo racconto ci dà un affresco di quello che poteva essere la vita di una giovane donna nera e lo fa empatizzando con loro e cercando di non avere pregiudizi verso le scelte che fanno. L’altro pregio è quello di portare il lettore ad interrogarsi su quanto è stato fatto rispetto ad allora, su quali siano i benefici che hanno portato le lotte per l’uguaglianza e per i diritti sociali e su quanto c’è ancora da fare. L’America attuale, così come altre parti del mondo, non è affatto pacificata in tal senso. Le lotte sociali sono in pieno fermento e si continua a dibattere e a discutere anche su diritti che si pensavano acquisiti a dimostrazione di quanto le tematiche espresse nel libro siano ancora attuali. 

Vite ribelli, bellissimi esperimenti” è quindi un libro pieno di spunti interessanti, di curiosità e di punti di vista inattesi. Anche se non sempre lo stile dell’autrice si dimostra all’altezza perché piuttosto ridondante, l’argomento trattato non lascerà sicuramente indifferente il lettore. 

Per chi desiderasse approfondire l’argomento consiglio un’ottima serie televisiva uscita recentemente: “La donna del lago“, ideata, scritta e diretta da Alma Har’el. Il racconto è ambientato nella Baltimora del 1966 e le due protagoniste, Natalie Portman e Moses Ingram riescono con la loro bravura a rendere evidente la strisciante violenza di genere che permea quell’epoca. Ammetto di essermi trovata a fremere di rabbia come donna e questo per me vale più di mille discorsi. 

Buona lettura e buona visione!


Saidiya Hartman (1961) scrittrice e accademica, vive a New York, dove insegna alla Columbia University. Studiosa di storia culturale, fotografia e filosofia etica, nella sua carriera si è concentrata sulla cultura afroamericana e sulle intersezioni tra diritto e letteratura. Oltre a Vite ribelli, bellissimi esperimenti ha pubblicato Perdi la madre (Tamu 2021) e Scenes of Subjection: Terror, Slavery, and Self-Making in Nineteenth-Century America. Tra i molti riconoscimenti, ha ricevuto una borsa di studio Fulbright, una Guggenheim Fellowship nel 2018, una MacArthur Fellowship nel 2019. Nel 2022 è entrata a far parte dell’American Academy of Arts and Sciences.

Autore

  • Ambra Devoti

    Ambra Devoti, nata a Piacenza nel 1984. Ha frequentato il liceo artistico nella sua città natale per poi trasferirsi a Firenze dove si è laureata all'Accademia delle Belle Arti. Appassionata di cinema, musica, arte e letteratura, assolutamente indispensabili per vivere una vita degna di essere vissuta

    Visualizza tutti gli articoli