Sovraccosce!

SOVRACCOSCE

C’è questa cosa, dottore, che io la notte volo, ma no che volo per dire, per sognare, no – io volo davvero, ma davvero.

Guardi, ho qui una falena presa ieri sera. Non prova che io abbia volato – dice lei. Va bene. E questo nido di nibbio? Neanche questo.

Ora le porto una stella cometa, un satellite, un asteroide, e glieli faccio esplodere sulla scrivania. Senta dottore, non vedo altra alternativa al chiederle di venire con me a volare.

Si trovi davanti alla Conad questa sera alle undici. Undici, undici e un quarto – io ho un qualche problema con gli orari. Se non dovesse vedermi vuol dire che ho dimenticato l’appuntamento, che sono già in volo: misero, di spalle umili, tra Volterra e Lajatico, per cieli neri e nuvole non benigne. Guardi, le lancio lo spoiler: io normalmente cado, male, intorno al cimitero dei Marmini. Mi spacco braccia e gambe e sovraccosce. Tutte le mattine, verso le sei, cado rovinosamente. E poi punti di sutura, ingessature e antibiotici.

E tutte le sere, ingessato e rotto, e suturato e infetto, ci riprovo.

GONNELLI

Ricordo le conversazioni col vecchio Gonnelli, un signore brutto come il mal di denti. Aveva la gentilezza e l’umiltà di chi ha sempre lavorato in campagna. Per dire che il lavoro in agricoltura era sempre più abbandonato dai giovani partiva dalla meccanizzazione. Diceva dei trattori, delle mietitrebbie sempre più efficienti. :- Arriverà il giorno che basterà pigiare un bottone per avere un quintale di grano in magazzino. Si, aggiungeva – ma si troverà chi lo pigia quel bottone?

Ma il suo discorso preferito erano i morti: son tanti, sai? Sono molti di più di noi. Lo diceva con lo sguardo divertito, sapendo di toccare un punto che normalmente evoca tasteggiamenti e paure: ridacchiava. Ci aveva fatto pace, con la morte: quanto durerò? Un annetto?

Mi raccomando tenete lontano il prete.

Il Gonnelli.

SOMOZA, SI: SOMOZA.

A parte il fatto che io non ho mai chiesto di venire al mondo, a parte. E poi ci sarebbero altre faccenduole, tipo nascere in una famiglia di persone risolte, sicure del proprio stare al mondo, capaci di autodefinizione rasente realtà. Vale a dire io sono io, senza eccessi di sé, senza sensi di colpa millenari, senza autocommiserazioni di sorta. Io sono io e basta, una cosina facile facile, come cacare - o anzi no, che anche cacare alle volte è una faccenda. Come respirare, ecco: come respirare. 
Non l'ho chiesto, no, di nascere, e magari ero solo il frutto di una sbornia di gennaio inoltrato, quasi febbraio, una cosa di vieni un po' più in qua che ho freddo, appoggiati, ti posso dare un bacino? Queste lenzuola sono belle come la natura, sono il fresco di una sera d'estate, dopo il torrido del giorno, dopo il sudore a fiotti che cola fra i peli del petto, fra le scapole alate, che cola in fondo ai piedi e forma quelle caccole nere che fanno schifo al pensiero - queste lenzuola sono la poesia, il bello eterno, la destrutturazione della pianta del lino, e gli egiziani e le vele dell'albero maestro della nave di Ulisse: come si chiamava quella cazzo di nave, non me lo ricordo. Mi ricordo una storia di un'altra nave che doveva innalzare vele di un certo colore in caso di esito positivo e di un altro colore in caso di esito negativo. E sbagliarono, o non mi ricordo cosa, e issarono le vele sbagliate e ne venne fuori una tragedia di Sofocle, Manìstocle, Steverardis, Eddoche, Clotildo da Venosa, Manlio di Fondo Valle. Perché le tragedie dei greci antichi sono un po' così, che c'era Elena che il marito non le piaceva e glielo avevano affibbiato senza che lei avesse espresso parere alcuno, e lei non gliela dava, al marito, e tutte le sere era una cosa di ho mal di testa, e questo vento, e c'è un freddo porco, e spostati che mi fai caldo, e levati che è l'ora, e si, va bene, te la do: perché ogni tanto bisognava pure che gliela desse, al marito legifero, legiffimo, legillio. E mentre lui cercava di dare il meglio di sé lei pensava ad altro, a degli involtini di cavolo verza che la vicina aveva servito all'ultima invitata di ospiti I Lustri - degli involtini fantastici con la verza fuori scottata appena in acqua bollente, e dentro un ripieno di ricotta, poca carne di agnello e uova, e poi pecorino a volontà, croccante e fiero nel suo belante esistere, e lei INOLTRE, si grattava un polso mentre lui pompava da fiero Alfa noncurante del rischio ischemia. O trombosi, Ipazia, Bela, Lugosi. Saranno famozi. Somoza.

BUONA SERA TANTA.

Non ho pagato le bollette del gas e della luce, le hanno staccate l’una e anche l’altra – e nemmeno dell’acqua: quindi mi scuserete l’offesa olfattiva (ma direi estetica in assoluto). Passo davanti, in notturna, solo come i cani soli, davanti dicevo alla Biblioteca Comunale – hanno dimenticato accesa la luce in Sala Lettura: capita. Salgo su in casa a tentoni, e a forza di accendino Bic trovo il libro che un buon amico mi ha prestato. Esco di nuovo e vado a piazzarmi davanti ai finestroni della Sala Lettura a favore di luce. Ci vogliono circa un sei minuti buoni a riga, ma riesco comunque a leggere una ventina di pagine. Chi passasse in quel percorso di tempo davanti alla Biblioteca Comunale, vedrebbe un tizio in pigiama, seduto su una poltroncina da campeggio, con gli occhiali rosa al tre e mezzo, trovati nella spazzatura (seminuovi!) che legge una cosa di Celine – Casse Pipe, mi sembra. E dice la lettura, legge a fior di labbra scandendo sillabe, accenti, interni percorsi accentuativi – non meno importanti di segno e senso. Affatto. Secondo me il Nobel andrebbe assegnato alla punteggiatura, figuriamoci.
Il pigiamino è celeste, coi maialini rosa stampati. E puzza di bucato lasciato tre giorni in lavatrice. Buona sera tanta.

INVENTARIO

C’era un negozio straordinario,
che aveva l’orario al contrario:
quando apriva – chiudeva, 
e chiudeva quando apriva. 
Non si capiva se si poteva 
comprare, né cosa comprare, 
per il semplice fatto
che il proprietario
del negozio al contrario
era tutto matto.

Autore

  • Francesco Simoncini

    Nasce, io, a Volterra, Pisa, Toscana. Riesce, sempre io, a diplomarsi a stento in ragioneria. Si iscrive a Lettere a Pisa, ma forse avrebbe preferito Testamento, o al limite Fare. Non si laurea affatto, perché intorno ai venticinque anni si trasferisce a Berlino, ci rimane tre anni, e a cinque esami dalla laurea smette di studiare. O bravo. Comincia a girare per ristoranti e bars, cameriere, cuoco, commesso, giardiniere, imbianchino, falegname, manovale e scrittore dalle sei a mezzanotte. Fa anche il libraio, a Pisa. Attualmente vive di sussidi vari e lavoretti saltuari. Un pezzente, per farla brevina. Spera, anche per quest'anno, di trovare un lavoro stagionale in un qualche ristorante sulla via del mare. Ma si accontenterebbe anche di un camerierato ai piani in uno dei settecento alberghi dei dintorni. Mi dimenticavo: è tornato, io, a Volterra nel 2001, dopo aver vissuto a Berlino, ma s'è già detto, poi a Pisa, a Livorno e anche in altri posti che ora, io, non si ricorda. E' nato il 4/10/66, per S.Francesco. Ha quindi cinquattotto anni, anzi no, cinquantasette e quattro mesi. Grazie. Ma grazie di che?

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