Scrittrici, creature poetiche, dotate di un talento unico, quello di catalizzare gli umori del mondo, amplificando luci e ombre, in una costante vertigine bipolare.
Sylvia Plath, Renée Vivien, Anne Sexton, Goliarda Sapienza, Zelda, Virginia Woolf, Fuani Marino che del suo tentato suicidio ne ha tratto una storia, sono solo alcune delle vite tormentate, in bilico tra disperazione e genio creativo.
Donne plasmate con una diversa policromia sensoriale, che hanno lasciato tracce importanti nella letteratura e che noi de ilRecensore.it vogliamo ricordare.
«Credo che uno dei principali compiti della letteratura sia proprio riuscire a dare un nome ai sentimenti e ai dolori più indicibili»
Fuani Marino.
IL PESO DELL’ESISTENZA
“Signori e paesani, a voi mi rivolgo il nostro atto è concluso, la nostra scena finita.
Finito il tempo della strega e degli amanti.
Sbocciato è il germoglio; caduto il fiore.
Ma presto sorgerà un’alba nuova perché il tempo di cui siamo i figli giovanissimi ci riserva, lo vedrete, lo vedrete...”
Virginia Woolf, grande scrittrice del Novecento, a soli cinquantanove anni cede al peso della sua esistenza e decide di lasciarsi affogare, una mattina di marzo del 1941, nelle acque del fiume Ouse vicinissimo a casa sua.
Cresciuta in un ambiente familiare multi sfaccettato, ricco di rapporti e affinità con figure di rilievo strettamente legate alla società letteraria vittoriana, la piccola Virginia si ritrova, crescendo, a diventare una figura di riferimento importante ma nel suo intimo la sofferenza cresce in ugual misura.
A soli tredici anni subisce la perdita della madre e sempre giovanissima il lutto torna a trovarla togliendole la cara sorella. In tutti i suoi capolavori, tra le righe, si nascondono questi suoi drammi e sofferenze.
Vittima di abusi da parte dei fratellastri che hanno influito pesantemente sulla sua psiche dovrà combattere psicosi e un disturbo bipolare. La Woolf cercherà sempre rifugio nella scrittura ma già dopo il suo primo libro, l’intento di togliersi la vita diventa realtà.
Nemmeno il suo grande amore Vita Sackville-West le permetterà di vincere questa battaglia.
Il suo ultimo lavoro “Tra un atto e l’altro” edito in Italia da Guanda, verrà ritrovato sulla sua scrivania assieme a due sue lettere di congedo dal mondo. Non la migliore delle sue opere ma perfetta e geniale, quasi un regalo dedicato a tutti i suoi fedeli lettori. Delicato e indimenticabile permette di salutarla con un senso d’intimità.
Ciao Virginia.
By Ambra Ravalico
ZELDA FITZGERALD
“Non voglio che tu mi veda diventare vecchia e orribile. Meglio sarebbe morire entrambi appena compiuti i trent’anni.”
Siamo nel pieno degli Anni ruggenti, in quella che Hemingway in Festa mobile chiamerà Lost generation; giovani, per lo più artisti, che vivono la perdita dei valori fondamentali e bruciano i loro giorni tra feste, alcol ed eccessi di ogni genere.
Lo Star System si riunisce a Parigi, dove domina i salotti l’artista eclettica Kiki di Montparnasse; a New York, tra le favolose ville di Long Island, ambientazione del Grande Gatsby di Scott Fitzgerald e in Costa Azzurra, dove troviamo i vacanzieri di lusso come Zelda Fitzgerald che brilla per bellezza e leggerezza.
Flapper girl, ribelle e anticonformista, Zelda si crogiola nella vita fittizia che si è creata, nascosta dentro la sua “campana di vetro”, lì la realtà rimane fuori…ma quando irrompe, tutto va in frantumi…
È il 1936 quando il marito Scott la fa trasferire in una clinica psichiatrica per arginare quella che si è rivelata una acuta mania suicida, amplificata dall’alcolismo, dipendenza che si rivelerà letale anche per Scott Fitzgerald.
Paranoica, schizofrenica, tenta il suicidio buttandosi dalle scale solo per gelosia, Zelda rimane la musa ispiratrice di colui che ha scoperto «le strutture nascoste delle cose», come le ha definite Pietro Citati ne La morte della farfalla.
Lasciami l’ultimo valzer, l’unico romanzo di Zelda, fondamentale per quello che sarà il canovaccio di Tenera è la notte, è il testamento di un’intera generazione di donne che hanno bruciato le tappe, rincorrendo un’esistenza che ancora non poteva essere; la storia di una ragazza che nasconde nella frenesia delle feste e nelle piroette la sua fame di vita e la sua incapacità di tenerla stressa a sé.
By Patrizia Picierro
Anne Sexton, la Donna Strega
Anne Gray Harvey Sexton (1928 – 1974) nata nell’oscura Newton in Massachusetts nel 1928; ultima di tre sorelle; la madre Mary alcolizzata; il padre che la detesta al punto di dirle di non reggere la sua vista. Nel 1944 Anne conosce Kayo Sexton, si innamora di lui e fuggono insieme per sposarsi, sperando di trovare nel matrimonio la via di fuga più facile. Nel 1953 nasce la prima figlia Linda Gray, nel 1955 la secondogenita Joyce Ladd.
Ma è tutta qui la vita?, arriva a chiedersi Anne, e una sera del luglio 1956, sentendosi sola e disperata più che mai, decide di uccidersi con le pillole per dormire che le aveva prescritto la psichiatra.
Dice di sé in quel periodo, in un’intervista rilasciata alla Paris Review: «Fino ai ventotto anni avevo una specie di sé sepolto che non sapeva di potersi occupare di qualunque cosa, ma che passava il tempo a rimescolare besciamella e badare ai bambini. Non sapevo di avere alcuna profondità creativa. Ero una vittima del Sogno Americano, il sogno borghese della classe media… Questa vita di facciata andò in pezzi quando a ventotto anni ebbi un crollo psichico e tentai di uccidermi».
Inizia, quindi, a scrivere per non impazzire. Durante una seduta, il suo psicanalista le suggerisce di riversare tutti i suoi pensieri maniacali nella scrittura. Ed è così che farà, tanto da iscriversi a un seminario di poesia tenuto dal celebre poeta Robert Lowell.
Diventa una poetessa sui generis, rivoluzionaria per l’epoca, tormentata, femminista ante litteram: nelle sue poesie, infatti, parla di tutto… le mestruazioni e la ricerca di dio, la masturbazione e l’onnipresenza della morte, il dolore di una figlia maltrattata e quello di una madre incapace di assolvere al proprio ruolo.
«Esiste qualche apparecchio per il mio cuore? / Ho solo un aggeggio che si chiama vibratore»
Al seminario conosce Sylvia Plath e dopo le lezioni vanno spesso a bere tripli Martini al Ritz e a parlare di morte e dei loro diversi tentativi di suicidi. «Parlavamo della morte con intensità bruciante, entrambe attratte da essa come due falene dalla lampadina della luce: la succhiavamo», scrive in una lettera.
Ci riuscirà per prima Sylvia nel 1963, infilando la testa nel forno dopo aver preparato la colazione per i figli. Le dedicherà una poesia – “La morte di Sylvia” – contenuta in Live or Die che le farà vincere il Pulitzer l’anno successivo. Nella poesia scrive:
«Ladra! / come ci sei strisciata dentro / scivolata giù da sola / nella morte che volevo da tanto e così tanto / la morte che entrambe dicevamo di avere superato».
Alla fine ci riuscirà anche lei… Il 4 ottobre 1974, a 46 anni, con addosso la pelliccia della madre e in mano un bicchiere di vodka ghiacciata, si siede in macchina, accende il motore e la radio. Dopo tanti tentativi, alla fine ce l’ha fatta…
“Di certo sapete che ognuno ha una morte,
la propria morte,
che lo aspetta.
Quindi ora io me ne vado
Senza vecchiaia o malattia,
selvaggiamente ma scrupolosamente…”
By Tiziana Ricci
Renée Vivien
Nata a Londra come Pauline Mary Tarn nel 1877, Renée Vivien è una poetessa britannica che ha però scelto come lingua d’arte il francese.
Fu una donna nettamente in anticipo sui tempi.
Non nascose mai la sua attrazione per le donne, che furono il soggetto della sua produzione poetica. Nota la sua relazione con l’ereditiera e scrittrice americana Natalie Clifford Barney e il suo amore sincero, ma solo platonico, per l’amica di sempre Violet Shillito.
Vivien era una donna di grandissima cultura, amante del lusso e dei viaggi. Una figura di spicco della società “bohémien” dell’epoca.
In vita fu nota tra i suoi contemporanei come “Musa delle Violette” in quanto amante di questi fiori e per il suo legame con l’amica Violet. Le sue poesie erano uno specchio della sua anima e della sua vita, mostrandone lo spirito più ardito e sincero.
Vicina allo stile del Simbolismo e del Parnassismo è stata spesso considerata una Saffo del 1900 per i suoi versi espliciti che all’epoca destarono scalpore tanto che venne vista con sospetto dalla società e finì nell’oblio. Tornò in auge grazie ai movimenti femministi degli anni ’70 e oggi è possibile riscoprirla anche grazie al bellissimo volume di Odoya “Renée Vivien.
La Saffo della Belle Époque” scritto da Teresa Campi, la prima studiosa italiana che si è dedicata a questa incredibile poetessa.
La sua vita non fu però costellata di felicità. Nel 1908, mentre si trovava a Londra, tentò di suicidarsi ingerendo una dose massiccia di laudano. I debiti la stavano divorando. Debilitata dal tentativo di morire contrasse la pleurite e tornò a Parigi. Morì a 32 anni il 18 novembre del 1909.
All’epoca la morte fu catalogata come suicidio ma di fatto fu il risultato di una serie di cause concatenate: la donna minò violentemente il suo fisico con alcool e digiuni forzati causati molto probabilmente da anoressia nervosa. La morte fu sempre una sua compagna silenziosa.
By Laura Gobbo
La vita di Sylvia Plath nelle parole del marito
Di Sylvia Plath e della sua tragica fine sappiamo quasi tutto, tanto da averla trasformata in una sorta di icona delle scrittrici “maledette” e suicide. Meno nota è invece la versione del marito, Ted Hughes: cosa ha significato convivere con una poetessa che dagli abissi della sua anima traeva linfa per la sua arte?
A colmare questa lacuna ci ha pensato Connie Palmen che in “Tu l’hai detto” (Iperborea 208 ) lascia la parola a Ted: basandosi sulla sua produzione letteraria, traccia una versione romanzata della convivenza con Sylvia, che diventa in definitiva la storia di un amore e della sua fine.
Dal primo folgorante incontro, ai viaggi tra America ed Europa, alla comune passione per la poesia, senza nascondere il clima di ostilità di amici e familiari verso l’unione con “una lepre timorosa dall’anima di vetro”.
Una creatura ossimorica, “disperatamente allegra”, che parlava spesso della sua morte (“Chi vuole creare deve morire decine di volte nella vita”), anche nel vano tentativo di ricongiungersi al padre precocemente perduto.
E poi la creazione di una famiglia nel Devon Shire, in Inghilterra, la nascita dei due figli, Frieda Rebecca e Nicholas, i tradimenti di lui, le scenate di gelosia di lei, il suo scivolamento nella depressione, la separazione dopo sei anni e mezzo di unione, il suicidio della poetessa e l’inevitabile chiacchiericcio postumo dei tanti che nel marito hanno visto il vero responsabile della sua morte.
Non si troveranno colpevoli né innocenti in questa storia, che nei suoi momenti di luce e di oscurità, ci consegna il ritratto di una coppia e di un amore che non bastò a se stesso.
BY Donatella Vassallo
FUANI MARINO: SVEGLIAMI A MEZZANOTTE
<<Non posso dire che il volo sia stato breve. Ricordo perfettamente la vertigine, la forza di gravità che da concetto astratto diventa sensazione. Ho pensato che ci sarebbe voluto poco, che era questione di attimi: poi sarei morta. Era come se volessi confortarmi, come se una parte di me mi dicesse di non aver paura>>.
Fuani Marino è in primis il suicida. Solo dopo, e verosimilmente a causa del suo suicidio, è, sarà, lo scrittore. Una precisazione che credo necessaria, posto che Marino stessa, nel suo romanzo Svegliami a mezzanotte, afferma di essersi decisa a scrivere per un bisogno di condivisione, un ideale di vicinanza e solidarietà tra persone con problemi psichici. Condivisione che è pura utopia, prosegue: la solidarietà, in questi ambiti, non esiste. Si è più spesso preda di una malcelata vergogna di sé.
Fuani Marino ha tentato il suicidio pochi mesi dopo essere diventata madre.
Immediatamente tutta la narrazione, l’intero vissuto dell’autrice si infila a forza in quel meandro semisconosciuto che è la depressione post partum. E, a cascata, nelle paludi ancor più nebulose e infide, delle aspettative che la società cala, come una mannaia, sulla donna.
In questo libro si apre dunque un mondo intero. Fuani Marino si limita tuttavia a raccontare la sua esperienza. Un esercizio di comprensione ma mai di indulgenza. Ciò che le interessa è offrire uno schema comportamentale e un’analisi oggettiva del disturbo mentale attraverso le voci autorevoli della letteratura. Lo scopo non è attenuare ma comprendere. Mettendosi a nudo, talvolta anche senza curarsi di urtare la sensibilità del lettore.
Come arriva, come si trasforma, come attecchisce. La sua ambiguità, la sua virulenza. Come giunga, spesso, ad ammorbare la donna e le sue solitudini. Come sia subdolamente sospeso tra sofferenza e salubrità. Sguazzante in quella terra di mezzo tra normalità e devianza. Concetti che la società definisce e racchiude in un perimetro che esige certezza ma che invece è figlio dell’incerto, confuso tra mille sfumature.
Nel buio di un viaggio senza uscita, Marino lascia intravedere la luce. E questa indulgenza, questo spiraglio è il balsamo necessario e sufficiente ad accettare i nostri limiti e a ergersi contro stigmatizzazioni e pregiudizi.
By Laura Salvadori
Goliarda Sapienza e quel filo che la salvò
«Ogni individuo ha il suo segreto, ogni individuo ha la sua morte in solitudine...morte per ferro, morte per dolcezza, morte per fuoco, morte per acqua, morte per sazietà unica e irripetibile. Ogni individuo ha il suo diritto al suo segreto ed alla sua morte.»
Quanta passione possedeva Goliarda Sapienza. Eppure qualcosa, a un certo punto, si spezzò; quel filo, il filo pirandelliano, quello che ti fa impazzire. Dall’esterno questa donna ha tutto, il lavoro che ama, una bella casa, un compagno. Ma arriva la depressione. Non dorme più. E ingoia pasticche, perché vuole solo dormire, profondamente! E si sveglia in un letto di ospedale. “Volevo dormire”, si giustifica. Arrivarono gli elettrochoc e la cura con uno psicanalista: appuntamento a mezzogiorno. Ma lo psicanalista cede e l’abbandona. Troppa intelligenza, troppe domande.
Tutto le va stretto: il mondo incantevole del cinema e del teatro della Roma degli anni ’60, non li sente più suoi. Il passato è confuso a causa delle sedute dell’elettrochoc. Questa volta si sveglia da un coma. È salva, per la seconda volta!
Ma arriva la rivoluzione. Perché Goliarda comprende che, per uscire da quel limbo in cui è caduta, non deve parlare aspettando degli appuntamenti, parlare mentre un uomo ti ascolta, un uomo che, poi sarà sopraffatto dalla troppa intelligenza della paziente. Goliarda trova un nuovo filo per salvarsi. E per recuperare quello di cui gli elettrochoc l’avevano deprivata! E quel filo si trova in una borsa di lana che contiene una penna e un taccuino. Goliarda non è più un’attrice dell’era del realismo. È rinata scrittrice. Spezzato il filo della follia, abbandonato il filo di mezzogiorno, adesso si aggrappa al filo della scrittura.
«…al massimo pensate - non lo dite forte la parola tradisce - non lo dite forte ma pensate dentro di voi: è morta perché ha vissuto.»
By Samanta Giambarresi
Un macabro invito alla vita
SUICIDIO: autoeliminazione, scelta estrema, atto di disperazione
Definirlo è semplice, comprenderlo infinitamente complesso. La letteratura, da sempre, si confronta con questo gesto ultimo, scrutandolo nelle pieghe dell’anima, interrogandosi sulle sue cause, offrendone rappresentazioni tanto diverse quanto profonde.
Potremmo, paradossalmente, prendere a esempio Morticia Addams, icona dark per eccellenza, per celebrare la vita. Morticia, con il suo amore per il macabro, il suo humour nero e la sua passione per l’esistenza, seppur declinata in chiave decisamente sui generis, ci ricorda che anche nell’oscurità si cela una vitalità sorprendente. Il suo non è un invito alla morte, bensì un’esaltazione di un modo di vivere altro, che accetta e abbraccia anche gli aspetti più inquietanti dell’esistenza.
Morticia Addams: «L’autoeliminazione? Che caduta di stile!»
Argomento deliziosamente macabro! Vedete, cari miei, l’autoeliminazione è un concetto, un’elegante via d’uscita per i personaggi tormentati che popolano le pagine dei libri. Ma nella squallida realtà è un atto di pessimo gusto, una volgare intrusione nel naturale corso degli eventi. Perché? Beh, è piuttosto ovvio, no? La vita è un dono così squisitamente grottesco, sarebbe un peccato mortale sottrarsi allo spettacolo prima della sua naturale conclusione. Dove sarebbe il divertimento nel perdersi la prossima tragedia che incombe dietro l’angolo?
E poi l’attesa è la vera essenza del piacere. Quel languido desiderio di oblio, quella sottile carezza della morte che ci sfiora l’anima nei momenti più bui… perché affrettare l’inevitabile? Godiamoci ogni istante di questa deliziosa agonia. Perché, in fondo, non è forse questo il vero significato dell’esistenza? Un’attesa infinita, un lento e inesorabile declino verso l’abbraccio finale della morte. E privarcene sarebbe un atto di imperdonabile ingratitudine.
By Nicoletta Tani
Dai dati dell’OMS emergono numeri impressionanti: un milione di suicidi ogni anno, in media uno ogni 40 secondi, mentre ogni tre secondi si registra un tentativo di suicidio.
Telefono Amico Italia, vuole ricordare a tutte le persone che stanno vivendo una fase di crisi e di disagio profondo e che hanno pensieri suicidari, che è SEMPRE IN LINEA E A DISPOSIZIONE.
Telefono Amico Italia, tutti i giorni dalle 10 alle 24.00 al numero di telefono 02 2327 2327