Sacha Naspini, provincia ed emancipazione

Sacha Naspini

Sacha Naspini - A tu per tu con ilRecensore.it

Sacha Naspini è nato a Grosseto nel 1976. Il suo romanzo d’esordio, L’ingrato, è del 2006.
Per la casa editrice e/o ha esordito nel 2018 con Le Case del malcontento.
I suoi libri sono presenti in quasi 50 paesi.

Abbiamo incontrato Sacha a metà Marzo alla biblioteca delle Oblate di Firenze insieme alla compagnia di Attodue che da lì ad una settimana avrebbe messo in scena la riduzione teatrale de Le Case del malcontento.

Data l’occasione la prima domanda non può che essere legata a questo tuo romanzo così particolare e universale, a partire dal linguaggio. Come hai elaborato la lingua de Le Case?

«In realtà è curioso perché durante le presentazioni, indipendentemente dalla località, c’è in effetti questo sentimento di condivisione, di universalità, che a parlarne siano lettori di Aosta, di Cagliari o di Palermo. A livello di lingua quello di Le Case è un italiano fermo, di parole dialettali che ne saranno forse quattro o cinque, credo sia la semantica che trasferisce quel nostro modo di stare al mondo, noi che si bestemmia la nostra terra, cosa che già ti racconta un modo di stare al mondo. Poi la Maremma è terra di confine, di briganti, di tombaroli, di morte e di malaria, quindi questi sono appunto gli aspetti peculiari che magari altrove non ci sono però poi appunto, confrontandosi col mondo, quando le persone vengono alle presentazioni ecco che Le Case si fa specchio per il loro paesino, il loro borgo.

Poi c’è lo step successivo, quando la storia va nel mondo.

Le Case è stato tradotto in quasi 50 Paesi e di questi ce ne sono alcuni come la Francia o la Germania in cui magari sì, ci sono dei retaggi diversi, della abitudini diverse, una lingua diversa ma la liturgia della giornata, alla fine, è simile alla nostra. Ma se sei nella provincia cinese profonda è completamente diverso, mangi in modo diverso, pensi in modo diverso, il tuo punto di vista sul mondo è diverso.

Negli stati arabi, a Tangeri, a Rabat, come attecchisce là dentro Le Case? Come attrae lettori su quel palcoscenico?

E la risposta che mi posso dare è che se Le case lo scarnifichi, gli togli tutto il suo contesto e lo ricostruisci in un quartiere di Manhattan, alla fine sta in piedi lo stesso forse perché rappresenta una realtà che non è topografica, è una geografia dei rapporti tra gli esseri umani, che forse sono gli stessi ovunque.

Sacha Naspini - Le case del malcontento -

Io non lo so come ho fatto ma, probabilmente, un bel pezzo del discorso va dalle parti della battaglia che anche io, in prima persona, ho condotto nei confronti della provincia, quel posto che ti sta stretto, come i personaggi de Le Case che vedono il muraglione del borgo come un confine che devi oltrepassare per andare nel mondo, e tu lo guardi quasi sognando una esistenza, quello che vedrai, quello che farai, cosa diventerai quando andrai via. Poi passa un secondo e hai 45 anni e sei ancora lì. Perché quel muro lì ce l’hai dentro, è un atteggiamento alla vita. A me interessava fotografare questo, rompere quelle dinamiche o almeno provare a nominarle.»

Ma per questo repertorio di storie, di espressioni che sono così forti ma anche così varie, perché non ce ne sono due uguali, te lo sei inventato o ti sei ispirato a qualcuno?

«Devo dire una cosa che forse può suonare troppo romantica però è vera: tante cose, soprattutto per la mia produzione diciamo più territoriale, vengono dalla mia nonna materna, che è ancora viva anche se ormai anzianissima, e che è sempre stata una grandissima raccontatrice di storie. Io, fin da ragazzino, sono stato praticamente cresciuto da lei e lei involontariamente mi ha trasferito, con quella vocalità lì che è terrosa, materica, ma anche poetica da un certo punto di vista, l’istinto di raccontare le storie.

Lei andava a fare la spesa e diventava un’epopea, non era andata solo a fare la spesa, perché aveva incontrato quello che era nipote di quell’altro e cominciava una ragnatela di racconti con magari anche dei link spezzati che andavano nel nulla con la quale però tesseva una storia. Lei andava a fare la spesa e tornava con delle storie.

E quell’atteggiamento lì secondo me si è depositato da qualche parte dentro di me con quella sonorità lì, quel suono che esiste nei dialetti, noi in Toscana raccontiamo molto per metafore, molto più di altre regioni forse, la butto lì così ma forse lo dico solo perché ci sono bagnato dentro.

Che è una metafora.

(ridendo) sì, è come se stessimo sempre raccontando qualcosa ma in realtà dicendotene un’altra, un sottotesto, un precipitato silenzioso, un portato che continuamente si muove e sta sotto al libro. E un’altra cosa bella, che lei faceva e che io ho cercato di rubare, è questa ricerca di una via per dire cose complesse in modo semplice, trovando delle strade, delle immagini. Tutte queste cose mi sono rimaste appiccicate addosso, e io la mossa del sangue l’ho presa comunque da lì, da quei massi, da quelle rocce, fin dal mio primo romanzo che si chiamava L’ingrato e aveva per protagonista il Calamaio, uno dei personaggi che poi si trova anche ne Le Case. Siamo già là dentro.»

Le Case è il nome che tu usi nel romanzo, ma esiste davvero come luogo?

«Sì, Le Case geograficamente è Roccatederighi, poi le storie che racconto ne Le Case del malcontento ovviamente sono una invenzione mia, ma il posto, come scenografia, esiste ed è quello. È il paese della mia nonna materna appunto, ci ho vissuto da bambino qualche anno ma ci sono tornato tanto, ci torno ancora spesso.»

Una cosa che mi veniva in mente, ascoltando, è che in effetti la voce dei nonni è una voce profonda, che muove un sacco di cose, ma è sempre una voce un po’ oscura.

«Sì, è vero. È come se ti dicesse “tu vieni da qui”. È una voce che non ti levi di dosso. Spesso le rivoluzioni si fanno nei confronti dei genitori, però anche da adolescente i nonni restano sacri. Almeno di norma. La dimensione dei nonni è quella della famiglia, un retaggio non solo culturale, non solo umano ma che si riverbera nel modo in cui cammini, nelle sembianze, nel punto in cui cominci a perdere i capelli. I nonni sono presenze ancestrali.

Negli anni ’80 molti sono stati cresciuti dai nonni, come me, quindi posso dire che abitavo paradossalmente con un piede negli anni ’80 e con un piede in questo famoso, imprescindibile ’43, quando mia nonna aveva 12 anni. Quindi ho un compagno di banco invisibile, un cordone ombelicale a volte indecifrabile col passato e che ti chiama sempre, almeno se scrivi. Se scrivi è una vocina che è sempre presente, un posto dell’anima e quindi anche un posto della scrittura.»

Ho notato che tu cambi molto voce da libro a libro, sia su Errore 404 che su Ossigeno, ma anche che non ti fai incasellare in un genere. Diciamo che la stampella del genere, tu la rifiuti. In questo vedo una ambizione che è molto interessante.

«Ma anche rischiosa. Io ora ti rispondo da lettore, non da autore. Da lettore sono un amante di quegli autori e quelle autrici che sperimentano strade, si mettono alla prova, magari tirando fuori a volte anche cose “imperfette” però ambigue, virali, senza mai ripetersi.

Io ho questi due filoni, uno territoriale e uno che va sul contemporaneo con velocità diverse, gesti diversi e, rispetto a Errore 404, ad esempio, mi incuriosisce come possa reagire una signora che magari ha letto Le Case del malcontento, che ha quella vocalità, quel territorio e poi magari compra Errore 404 e si trova in tutto un altro territorio con un protagonista che fa dei viaggi nel tempo emotivi attraverso il gusto, con un linguaggio contemporaneo, una velocità diversa.

Questo spiazza me per primo, però non posso non seguirmi da questo punto di vista. È bello. E la cosa più bella è se trovi un Editore, come è successo a me in questo caso, che non abbraccia il singolo romanzo ma scommette insieme a te, ti dà la libertà di seguire quello che senti. È una cosa molto rara in questo contesto storico. Non andando per forza dietro a quello che definirei l’andamento alimentare del lettore. È anche un modo, ora la dico brutta, per educare alla lettura.

Sacha Naspini - Errore 404 - ilRecensore.it

Perché se tu leggi 800 commissari, io non li scrivo però magari mi diverto a guardare delle serie, non è un mondo che rifuggo e ci sono cose non solo dignitose ma anche molto belle, poetiche, però la scommessa della lettura si esaurisce in ciò che mi aspetto. Io me lo aspetto, tu me lo dai e allora io continuo a chiedertelo, è un meccanismo confortante. La scrittura per me non deve essere mai confortante, la scrittura deve essere un altro posto dove ti fai male, dove non sei accompagnato a letto con un bacino sulla fronte. La scrittura deve metterti in un posto scomodo di te stesso.»

Tu da lettore quali libri ami?

«Da lettore mi viene in mente la Trilogia della città di K. di Agota Kristof, che è un libro frontalissimo, un po’ magico anche. Sono convinto che ci sia stato qualche allineamento delle galassie perché la Kristof fosse baciata da quella luce nera. Però anche quello è un romanzo non tanto classificabile se non come Letteratura. E se tu chiedi a chiunque l’abbia letto di spiegarti il finale, la risposta è sempre “Boh” e quel “Boh” contiene tante risposte, non è il “Boh” di chi non ci ha capito niente.

È che in quella striscetta di grigio finale che ti destabilizza, tu ti ritrovi a ricevere da questa autrice un sacchettino di buio, non bene identificato, e a fare l’esercizio di doverlo mettere in qualche modo su una tua mensola interiore perché, pur parlando del Grand Cahier, dei due ragazzini, della nonna e tutto il resto, parla anche di me.

Parla di qualcosa che mi riguarda.

E a cui finora magari non sono riuscito a dare un nome. Tornando al discorso della voce nera che tu senti attaccata ai nonni, pensa alla nonna di Klaus e Lucas che elemento è. E quella ambiguità, quella dualità ti mette un morbo addosso, ti viene la febbre ma non sai per cosa, non sai come curarla e forse non serve nemmeno, curarla. Basta sperimentarla.

Poi a dodici, tredici anni nasce l’innamoramento per il mezzo mondo, il fantasy, ho consumato intere saghe, Il signore degli anelli, Landover, Shannara, Dragonland, poi è arrivato Stephen King, perché la cosa magica è che ogni libro ti porta ad altri libri, ed è diventato un altro step. Un libro che mi è rimasto e che è citato anche in Errore 404 è La lunga marcia, che Stephen King all’epoca pubblicò sotto pseudonimo, e che ha uno dei finali più incredibili che abbia mai letto. Quel finale è una bomba atomica che mi ha fatto pensare “Ah, ok, quindi si può fare anche così”, sono cose che ti scuotono, ti riempiono di meraviglia e che poi finiscono nella tua cassetta degli attrezzi se decidi di fare lo scrittore.»

Che poi Stephen King è classificato come autore Horror quando in realtà fa di tutto.

«Assolutamente, Fantascienza, Fantasy, romanzi di formazione come Stand By Me, poi l’orrore ma anche il terrore, perché l’orrore è quando ci sono i mostri soprannaturali, le entità. Il terrore è umano, bestiale, vero. Poi ha scritto delle grandi storie d’amore.»

Mucchio d’ossa, per esempio.

«Esatto, Mucchio d’ossa è una meravigliosa storia d’amore. Da lì c’è stata la scoperta di quegli autori che non mi erano mai entrati nel radar quando ero a scuola, Fante, Bukowsky, Fenoglio, una libreria di autori che mi sono costruito un po’ da solo, forse giusto Calvino lo avevo incontrato alle elementari senza dargli interesse salvo poi, intorno ai vent’anni, un po’ bulimicamente leggermelo tutto in un mese.

Soprattutto quando sei ragazzo, stai male, sei preso da mille pensieri, ti guardi intorno e cerchi nella musica, nei libri se c’è qualcuno che parla di quello che senti tu, perché ti sembra impossibile essere così solo in quel sentimento da cui tutti prima o poi sono passati, e quindi affondi le mani, vai a cercare e a volte ti imbatti in certi esperimenti, in certi miracoli, che ti rimettono a posto, ti fanno sentire parte di qualcosa, di un dolore che non è solo tuo, ci sono passati altri. La magia della letteratura, come della musica, è questo dialogo per affinità anche con persone che non incontrerai mai.»

E tu, perché scrivi?

«Perché scrivo? Che tosta. È come dire perché sei alto uno e settantaquattro. È un pezzo che si è edificato fin da quando ero ragazzino, prima ancora di saper leggere e scrivere, in virtù dei racconti di mia nonna, della memoria storico familiare, della fascinazione per il racconto. Un pezzo di identità, c’è, come essere alto un metro e settantaquattro. Poi da ragazzo mi sono fatto la fatidica domanda: “Ma io, di tutta questa roba che sto scrivendo, che ci faccio?”, tanto che diventi un benzinaio, un direttore di banca o il CEO di una grande azienda continuerò comunque a scrivere, per cui voglio provare a dargli un senso, un significato.

Da qui i primi confronti con i premi letterari, c’era appena internet ma agli albori, era il ’95 per cui era complicato. Mandavo lettere agli editori che finivano nel nulla, nel limbo. Ma io andavo avanti.

E quindi perché scrivo? Forse per provare a dare un nome alle cose.

Alla complessità. Perché la scrittura ti porta ad andare a fondo, sotto la superfice. E in quel sotto c’è una infinita scala di grigio che riguarda le dinamiche umane. È come un superpotere che puoi sviluppare, prendere un fatto della giornata o un momento che stai vivendo e provare a trasformarlo in una storia con dei personaggi, delle simbologie, un precipitato silenzioso che è il gesto e che anche in Errore 404 è presente. Io ti racconto una cosa ma in realtà ti sto toccando un fianco, ti dico di guardare l’uccellino e cerco di toccarti dall’altra parte. Se ci riesco tu senti il solletico, ma non sai perché.

Quando funziona, quando si innesca questo meccanismo è davvero una magia, un superpotere appunto, che ti consente di portare nella vita di qualcuno una roba che per lui o lei è lontanissima eppure assolutamente presente e che magari lo definisce. A me è successo, alcuni libri mi hanno definito, sono stati delle mappe, e quindi nella risposta alla tua domanda c’è anche lo stupore e la bellezza di arrivare alla fine di Full of life di Fante e dirsi “Però, piacerebbe anche a me fare alle persone quello che lui ha fatto a me”.

Full of life Fante

E poi nella risposta, per come sono fatto io, ci sono i viaggi, viaggi fisici, essere curioso o, almeno, costringermi ad essere curioso, che è una bella forma di resistenza, un bel modo di stare al mondo, quello di provare a stare sempre in qualche modo in movimento, conoscere, guardare, osservare. Sempre cercando di scavare un pezzettino sotto. Se riesci.»

Forse è anche un modo per resistere alla voce della provincia, quella voce collosa che ti dice “Ma dove vuoi andare tu?”

«La provincia ho provato a raccontarla un po’ nel penultimo libro, Villa del seminario ma forse viene fuori anche ne Le Case. La provincia è feroce.

Prendi i soprannomi, ad esempio. Nei piccoli paesi tutti devono essere marchiati a fuoco. Nelle aspirazioni bruciate, nel difetto fisico, nel dramma familiare, ovunque faccia più male. Per esempio a Roccatederighi c’era uno che a 25 anni ha provato ad ammazzarsi. Pensa cosa doveva esserci nella vita di questa persona per tentare un gesto del genere. Non ci è riuscito, ha fallito. È sopravvissuto. Per tutta la vita l’hanno chiamato Mammazzo. Per tutta la vita “Oh, è arrivato Mammazzo”. Un altro voleva fare l’attore, allora tutti lo chiamavano il Divo. “Guarda, è arrivato il Divo, via si va a bere”.

E l’ho vissuta anche io, specialmente all’inizio. Poi quando gli altri cominciano a vederti, quando sei riconosciuto da un occhio terzo, qualcosa cambia, però all’inizio era tutto un “È arrivato l’Artista, vai Artista, andiamo!”. È un modo per banalizzarti, per spogliarti di te stesso.

Per tenersi su, anche, in qualche modo. Come una voce collettiva che ti chiede “Dove cazzo vai?”, “Dove pensi di andare?”. Perché se tu vai, e riesci, io poi come me la racconto? Se tu vai, e riesci, io poi devo prendermi la responsabilità della mia vita. Allora meglio se non ci provi nemmeno tu. È un bel combattimento, e se non ti dai una mossa rischi di restare imbrigliato lì. Per accontentare le aspettative degli altri, o le controaspettative potremmo dire, rischi di non andare mai via da quei famosi muraglioni che vedi da ragazzo e che non attraverserai mai»

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Autore

  • Giovanni

    Scrittore, fotografo, Service Manager in una delle principali Software House italiane, è stato cofondatore del Blog Thrillerlife ed è socio fondatore della associazione culturale IlRecensore.it e della omonima rivista online.

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