Benvenuta Martta tra le pagine de ilRecensore.it, la rivista letteraria pensata per tutti i protagonisti di questa meravigliosa passione che è la lettura.
MARTTA KAUKONEN
MARTTA KAUKONEN vive a Helsinki.
Prima di diventare una scrittrice a tempo pieno è stata critica cinematografica per i più importanti giornali nazionali. Il suo romanzo d’esordio, Butterfly, è stato un grande successo di pubblico e di critica in Finlandia e in tutta Europa: tradotto in 16 paesi, arrivato in vetta alle classifiche dello Spiegel in Germania, presto diventerà una serie tv.
“Perché dovrei raccontarvi tutti i particolari della gabbia? Voi non mi conoscete. Per voi io non sono altro che parole su carta. Potrei essere tanto il personaggio di un romanzo quanto una persona reale.”
Il 14 gennaio è uscito in tutte le librerie il romanzo thriller di Martta Kaukonen, Butterfly, edito in Italia per Longanesi QUI la nostra recensione
ilRecensore.it ha avuto la possibilità di intervistare la scrittrice finlandese Martta Kaukonen, in un incontro organizzato da Longanesi, riservato ad alcune bloggers italiane, tra cui Cecilia Lavopa di Contorni di Noir e Sabrina De Bastiani di Thrillernord.
Apre l’intervista Cecilia con le seguenti domande.
1. Clarissa dice: “Ho pensato molte volte che in Finlandia dovrebbe esserci una legge che obbliga chi vuole avere figli a sottoporsi a un serio test psicologico preventivo. Proprio come si verifica l’adeguatezza degli aspiranti genitori adottivi. Anche a rischio di essere io una dei bambini che, se la legge fosse esistita, non sarebbero mai nati.” Mi ha molto colpito il fatto che essere bambini nel luogo in cui si svolge la storia è due volte un problema: prima perché non sono sufficientemente difesi e poi perché non vengono creduti quando capita loro qualcosa. Mancanza di fiducia? Sono i genitori inadeguati o è una società non preparata ad ascoltare un certo tipo di traumi?
Martta: « Il test di cui parla Clarissa è un test reale in Finlandia, ma solo per le persone che stanno pensando di adottare dei bambini. Quindi, se si hanno figli biologicamente, non si deve fare alcun test, ovviamente. Ed è un po’ un paradosso, secondo me, che non si possa adottare senza questo test, ma che si possano fare figli in altro modo.
Penso che sia insito nella natura umana, una tendenza possiamo dire forse all’indolenza quando si sente parlare di qualcosa di preoccupante. In un certo senso è come se fosse nella natura umana non fare nulla. E non sto dicendo che lo capisco, e non lo accetto affatto, ma penso che sia la natura umana.»
2. A un certo punto scrive: “Viviamo nella società del fast food, che per rimarginare un trauma offre un cerotto invece dei punti di sutura. (Ci rimpinzano occhi, bocca e orecchie di ciarpame infiocchettato di rosa: cristalli che infondono energia positiva, angioletti e raggi di luce che leniscono i mali. Ma ci sono problemi che non si risolvono abbracciando un unicorno di peluche.”). E ancora: “Pretendiamo che le vittime si riprendano in fretta”. Crede ci sia una superficialità nell’affrontare queste fragilità o proprio una mancanza di volontà?
M.: «Restiamo vicini alla prima domanda: penso che non si tratti di superficialità, ma della stessa natura umana, di una sorta di profonda avversione a intervenire e del fatto che pensiamo sempre a evitare il dolore. Tutto ciò che facciamo, come esseri umani, è per evitare il dolore. Questo è il motivo, credo, per cui la gente beve, usa droghe, perché tutti vogliono evitare il dolore, il dolore emotivo. Ed è per questo che le persone adottano sempre la soluzione più facile.
È più facile credere in una sorta di “soluzione magica”, piuttosto che in una vero percorso, una terapia.»
3. In tutto il testo, ben 28 volte viene ripetuta la parola suicidio, qualcosa che nei paesi nordici risultano ormai da parecchio tempo superiori alla media europea. Quasi come se un problema non potesse trovare soluzione se non attraverso l’annullamento del proprio io. E’ un tema di cui se ne parla diffusamente o c’è sempre qualche reticenza?
M. « In Finlandia si parla spesso di questo argomento. Il motivo è che negli anni ’80 era una delle cause di morte più comuni. Nel 1986, quasi 40 anni fa, la situazione era così grave che il governo e il sistema sanitario dovettero elaborare un programma di prevenzione del suicidio. E questo è il motivo per cui se ne parla ancora. Il programma ha funzionato, non ci sono più tanti suicidi, ma il tasso di suicidi era altissimo. Ora, il paradosso è che siamo considerati il Paese più felice del mondo secondo molte statistiche, ma allo stesso tempo ovviamente abbiamo ancora problemi di salute mentale, depressione, suicidi, anche più di molti altri Paesi.»
4. Argomento che ho trovato ricorrente è il senso di colpa di cui soffrono i personaggi del romanzo, da Clarissa, a Arto, a Pekka e perfino dalla stessa Ira. È qualcosa che condividono e in che modo riescono ad affrontarlo? Chi ne è più consapevole?
M.:« Penso che il senso di colpa di Clarissa e Pekka sia totalmente falso. Non provano nulla, ma cercano di manipolare il lettore facendogli credere di sentirsi terribilmente in colpa.»
Prosegue nel giro di domande Sabrina di Thrillernord.
1. Quanto della tua esperienza professionale come critica cinematografica ha influito sul tuo approccio alla scrittura e sulla definizione del tuo stile così particolare, che mi ha immediatamente conquistata?
Martta Kaukonen: «Devo tutto al cinema, perché ho visto così tanti film che il mio subconscio è completamente scombussolato [ride]. Non facevo nulla senza pensare continuamente ai film, e l’influenza principale è stata quella dei film noir d’epoca.
Quelli degli anni ’40, nei classici studios di Hollywood durante la guerra. Al tempo le case di produzione non avevano tanti soldi, dovevano girare in bianco e nero, ma avevano attori brillanti come Humphrey Bogart. Mi piacevano i dialoghi, i personaggi, gli intrecci: devo tutto ai film noir.»
2. L’alternanza nei capitoli delle voci narranti dei protagonisti, oltre a catturare immediatamente per la qualità della resa e il thrill dei contenuti, mi ha mosso fin da subito una suggestione riguardo le identità già frammentate dei personaggi e allo stesso tempo in procinto di andare in frantumi. Già a partire da questo presupposto la suspense è davvero alta. Di più ancora, quanto le apparenze, il nostro mostrarci all’esterno sia filtrato da molteplici ragioni e dunque ci restituisca inevitabilmente diversi da ciò che siamo in realtà. Il tuo romanzo permette di vedere entrambe le versioni, l’essere e l’apparire, dei tuoi protagonisti. Come hai gestito la costruzione dei personaggi in tal senso?
M.: «Questa è una domanda difficile. Perché io scrivo con l’intuito, cioè non pianifico nulla quando scrivo… Qualcosa sì [ride], ma molto poco. Scrivo e basta e vedo se è buono o no, se non lo è lo butto via e ci riprovo. Come persona pianifico sempre tutto e non faccio mai nulla senza pianificare. Ma quando scrivo sono l’esatto contrario. Scrivo e basta, e il modo in cui Ira, il mio personaggio principale, mi è venuto in mente, ne è un buon esempio. Ero sdraiata nel mio letto, quando l’ho sentita parlare con me. Mi ha detto le prime righe del mio libro. E questo è il motivo per cui ho iniziato a scrivere. Questo dice molto di me come scrittore, è il mio stile, non pianifico.»
3. Mi ha colpito molto una frase del tuo romanzo: Ma per parlare era proprio necessaria un’altra persona? Il tema della comunicazione, anzi l’esigenza della comunicazione, che arriva a travalicare l’interlocutore, fa riflettere anche in relazione al mondo social, dove spesso si parla a tutti e dunque a nessuno. Cosa ne pensi? E cosa ne pensi in relazione a Butterfly, laddove si può dire che la comunicazione sia a più livelli manipolazione?
M.:«Poiché il mio libro è un thriller psicologico, ovviamente ho cercato di creare quanta più suspense possibile. Ho sempre pensato che ci fosse qualcosa di spaventoso quando qualcuno non dice fino in fondo quello che pensa. L’idea di non potersi fidare di nessuno. E lo ricerco anche nella scrittura: scene, battute in cui qualcuno parla e l’altra persona le crede anche quando non dovrebbe. Questa era la mia intenzione. Quando scrivevo dovevo pensare continuamente su molti livelli: quale è il vero, quale è il detto, quale è l’intenzione?»
4. Clarissa e Ira. La maternità mancata e il furore. Due supernove in rotta di collisione l’una verso l’altra. Due personaggi strepitosi, allo stesso tempo fragili e titanici, argilla e acciaio. Da cosa, o da chi 😉, ti è scaturita l’ispirazione a raccontarle?
Martta: «Come dicevo, ho sentito la voce di Ira nella mia testa, è così che mi è venuta in mente. Ma non so se Clarissa sia venuta da me. Non so se conoscete il fenomeno degli “psicologi star”, come il Dr. Phil. Ne abbiamo alcuni anche in Finlandia. Volevo scrivere di una psicologa famosa. Una che forse si preoccupa più di essere una celebrità che della sua professione. E Clarissa è così. Mi è venuto in mente perché ho pensato molto a questi terapeuti famosi dei quali non ho spesso grande stima.»
È arrivato il turno di domande per ilRecensore.it e con queste si conclude anche l’intervista.
1. Butterfly è l’esempio perfetto di quanto la realtà faccia più paura della finzione. I thriller, come i noir, sono diventati sempre più la cartina tornasole delle distorsioni della nostra società. La sua opera sembra una denuncia sentita e urgente, molto più che mero intrattenimento.
Martta Kaukonen:«Grazie, è stata davvero una cosa gentile da dire sul mio romanzo, ma naturalmente voglio che sia anche divertente. Perché nessuno lo leggerebbe se fosse noioso, ma naturalmente sono molto felice se mi dici che è anche più di questo.»
2.Ogni personaggio ha una voce unica, con tante sfumature nascoste. Quale personaggio ha faticato a tenere a freno, perché avrebbe voluto rivelare di più e prima?
M.:«Direi nessuno. Perché non ho scritto il romanzo dall’inizio alla fine. Ho scritto l’inizio, e poi un capitolo qui, un capitolo là, e così via. Quindi quando volevo rivelare qualcosa, lo facevo e basta. E quando il romanzo cominciava a essere pronto, era un compito terribile mettere i pezzi al posto giusto.
Ho giurato che non l’avrei mai più fatto e che nel mio prossimo romanzo avrei programmato tutto dall’inizio alla fine; ovviamente non l’ho fatto!»
3. Ogni romanzo crime contiene almeno una paura che l’autore ha già dall’infanzia, quale suo terrore racchiude Butterfly?
M.:«Sì, è la scena in cui Arto e i suoi amici sono adolescenti e giocano con la tavola Ouija.
Sono sempre stata terrorizzata da tutto ciò che è soprannaturale. Da bambina avevo paura dei fantasmi, delle tavole Ouija, di tutto, anche dell’ipnotismo.
Quindi questa è la mia paura.»
La Redazione ringrazia Martta Kaukonen e Longanesi per la disponibilità, e Cecilia (Contorni di noir) e Sabrina (ThrillerNord) per la collaborazione 🙂