Buongiorno a Luca Briasco e benvenuto tra le pagine de ilRecensore.it
Luca Briasco, americanista, editore (Minimum Fax), traduttore, agente letterario (ha fondato con Colomba Rossi e Francesca De Lena la United Stories Agency), curatore di festival come Testo.
Ha scritto Americana. Libri, autori e storie dell’America contemporanea. Insieme a Mattia Carratello ha curato La letteratura americana dal 1900 a oggi (Einaudi 2011) e nel 2023 ha pubblicato Il Re di tutti, un saggio dedicato a Stephen King.
È stato editor per Einaudi Stile Libero e precedentemente direttore editoriale di Fanucci, ha ideato la collana AvantPop, pubblicando come primo titolo la raccolta Schegge d’America. Nuove avanguardie letterarie.
Briasco ha tradotto diversi autori statunitensi e britannici, fra cui: Stephen King, Joe R. Lansdale, Howard Marks, Paul Harding, Richard Powers, Jim Thompson, J.G. Ballard, Daniel Mendelsohn.
La prima scelta, la più difficile, è decidere chi intervistare oggi: L’editore attento che con Minimum Fax ha dato una impronta importante al mercato, l’autore di saggi dedicati alla letteratura americana, l’agente letterario di autori come Massimo Carlotto, l’organizzatore di un festival dedicato alla filiera editoriale o la voce italiana di tanti autori come Hanya Yanagihara, Richard Price, Joe R. Lansdale, Angela Davis, Tiffany McDaniel e quello che nel tuo ultimo libro hai chiamato il Re di tutti, Stephen King?
Prima di accendere il virtuale microfono ti confesso che nei trentacinque anni che mi separano dal giorno in cui su una bancarella comprai una copia di Salem’s Lot, ogni volta che Stephen King si rivolgeva al suo “fedele lettore” sapevo che stava parlando esattamente con me. Quindi, nonostante le decine di domande che vorrei fare al Luca che si nasconde sotto ognuno di questi cappelli, scelgo il traduttore e modifico in questo senso la nostra prima domanda:
D: Luca Briasco, tu, perché traduci?
«Per pura passione e divertimento. Quando avevo poco più di quindici anni e una conoscenza scolastica dell’inglese, già traducevo per diletto i testi di Bob Dylan e di Bruce Springsteen, quindi si tratta di una “vocazione” che combacia quasi con la mia vita! E che, a livello professionale, porto avanti ormai da più di venticinque anni.»
Tu sei un traduttore brillante che ha lavorato su testi impegnativi di autori anche molto diversi tra loro, per tanti però diventare la voce italiana di Stephen King è il coronamento di una carriera.
D: come è arrivata la proposta e qual’è stato il tuo primo pensiero, quando te lo hanno chiesto?
«È arrivata un giorno di febbraio. A Roma aveva nevicato, e prevedendo un blocco totale dei trasporti – la città non è assolutamente attrezzata ad affrontare la pioggia, figuriamoci la neve! – ero rimasto a casa a lavorare. Sono uscito per una passeggiata e mentre zampettavo sui marciapiedi mi è squillato il cellulare. Era Anna Pastore, allora editor di straniera per Sperling, che mi ha detto: “Ti faccio una proposta indecente: ti va di tradurre il prossimo King”? Lo confesso: ho pensato fosse uno scherzo.»
Stephen King è un autore unico per molti motivi che vengono prima e vanno al di là del successo e della sua influenza nell’immaginario collettivo. Nonostante questo molte edizioni italiane che non citerò sono state funestate da traduzioni francamente imbarazzanti, con alcune notevoli eccezioni tra cui la tua e quella che è stata forse la più longeva voce del Re fino a questo momento: quella di Tullio Dobner.
D: Quanto ha influito questa eredità sul tuo lavoro?
«Moltissimo. Quella di Tullio, certo, in primo luogo. Ma anche quelle di Giovanni Arduino, che mi ha immediatamente preceduto, e di Wu Ming 1, che ha tradotto due testi importanti come 22/11/1963 e Notte buia, niente stelle.
In generale, quando subentri come traduttore, tanto più di un autore che ha venduto milioni di copie, non puoi non tenere conto che esiste già una voce italiana, o più voci, che ti hanno preceduto e che hanno lasciato la loro impronta. Anche per questo, ogni volta che mi arriva un nuovo King da tradurre, scelgo una sua opera che sento affine per tematiche o per atmosfere, e la rileggo mentre lavoro.»
Stephen King è un autore che usa spesso registri diversi: dalla lingua inventata di Lisey’s Story al “Dumb Self” di Billy Summers fino all’esteso utilizzo dei diversi accenti del sud o del midwest.
D: Quanto è difficile trasmettere queste sfumature mantenendo la tipicità di una lingua costruita come l’italiano ed evitando di cadere nella trappola del regionalismo o del dialetto?
«Questo è un problema che non riguarda solo King e che ha a che vedere con l’assenza, nella nostra lingua, di uno slang vero e proprio, che viene sostanzialmente sostituito dai dialetti o dai localismi.
A un traduttore non resta che lavorare sui registri della lingua italiana, cercando forme colloquiali che non degenerino nella sgrammaticatura ma che rendano, per quanto possibile, il flusso del parlato.
Il risultato non è mai completamente soddisfacente, ma esercitando l’orecchio sul proprio stesso lavoro si possono quanto meno limitare i danni.»
Anni fa, in polemica con un precedente traduttore, cominciai a leggere King in originale, scelta faticosa ma felicissima che mi ha portato a rileggere lui e tanti altri che spesso in italia non arrivano proprio. Ti dico senza piaggeria che sono tornato a leggerlo anche in italiano con la tua traduzione di The Outsider, che ho trovato avere una voce straordinariamente poco invadente e direi perfettamente funzionale alla storia.
D: Era questo il tuo obiettivo? E, se lo era, è un obiettivo che cambia a seconda dell’ autore o è una scelta di principio?
«È assolutamente una scelta di principio. Se il traduttore sovrappone la propria voce a quella dell’autore, o la impone, il risultato, per quanto apparentemente gradevole, è fuorviante e scorretto.
Mi è capitato, in passato, di ammirare enormemente il lavoro che un traduttore aveva fatto su uno dei miei autori preferiti. Salvo poi scoprire che tutte le sue traduzioni, apparentemente eleganti ed efficaci, si somigliavano. Indipendentemente da chi fosse l’autore e da quali fossero le peculiarità del testo originale.
Questo risultato paradossale certe volte si verifica anche nel doppiaggio cinematografico. Per quanto Ferruccio Amendola fosse un doppiatore formidabile, quanto è stato grottesco sentir parlare Pacino, De Niro e perfino Stallone nello stesso modo?»
Tradurre è necessariamente riscrivere, a volte per le tipicità di una lingua, altre per i riferimenti culturali, di cui King ad esempio fa un uso esteso, altre ancora per giochi di parole o modi di dire che semplicemente non hanno senso o non esistono nel linguaggio di destinazione e penso ad esempio al lavoro straordinario e terribile di Italo Calvino su I fiori blu di Quenau.
D: Come ti regoli di solito in questi casi? Hai dei testi di riferimento o delle linee guida? La casa editrice ha delle regole specifiche o è tutto lasciato alla interpretazione del traduttore?
«Non esistono linee guida, se non la volontà – comune a tutti gli editori – di ridurre al minimo, nei testi di narrativa, le note del traduttore.
Se ci pensi, però, questa è già una linea guida: se di fronte a un gioco di parole o a un’espressione difficilmente traducibile non puoi disporre di uno spazio per spiegare le tue scelte, sei inevitabilmente abbandonato a te stesso.
E non ti resta che “inventare”, improvvisare, scervellarti per trovare una soluzione che funzioni e, in modo indiretto, renda giustizia al testo sul quale stai lavorando.»
Parlando di Holly e in generale degli ultimi lavori di King come L’Istituto, ho avuto l’impressione di una visione generalmente più rassegnata, sia moralmente che politicamente, rispetto ai tempi che corrono. In particolare in Holly ho trovato una esigenza di affermare una posizione netta nonostante questa polarizzazione delle opinioni sia in sè stessa tutt’altro che politicamente neutrale. Come se di fronte a certi strumenti, tra cui i social, non avessimo ancora elaborato gli anticorpi necessari.
D: Tu che hai avuto modo di studiarne a fondo struttura e linguaggio, che cosa ne pensi?
«Penso che King ha compiuto da poco 77 anni. Avendo per giunta alle spalle una vita complicata, tra gli stenti dell’infanzia e dell’adolescenza, gli eccessi alcolici e gli stupefacenti, l’incidente nel quale ha rischiato di perdere la vita. Tutto questo non può non aver modificato il suo sguardo, spingendolo verso un disincanto che negli anni ruggenti era assente.
D’altro canto, è altrettanto vero che, sul trumpismo come sul COVID e il relativo negazionismo – due fenomeni che in America tendono spesso a sovrapporsi -, King ha espresso una posizione netta, e non solo nei suoi tweet, ma anche con ripetute allusioni all’interno dei suoi ultimi romanzi.
Devo dire che la cosa non mi entusiasma particolarmente: non perché non condivida le opinioni che King esprime, ma perché mi sembrano raramente integrate nelle storie che racconta, e troppo spesso intrusioni “autoriali” delle quali farei volentieri a meno!»
In quel magnifico racconto che era “Storia della tua vita”, poi portato al cinema con Arrival, Ted Chiang ha portato agli estremi l’ipotesi di Sapir-Whorf secondo cui apprendere un linguaggio significa modificare il proprio modo di pensare, includendo in sé la forma mentale dell’altro.
D: Come traduttore, qual’è la tua opinione a riguardo?
«Confesso di non avere un’opinione definita. Tradurre è sicuramente un modo di calarsi nel mondo dell’autore, rinunciando il più possibile alla propria identità e al proprio modo di pensare.
Proprio per questo è un mestiere che amo: perché mi porta via da me stesso, dalle mie pratiche e preoccupazioni quotidiane, e mi concede di “chiudere fuori il mio mondo”, calandomi con rispetto in una dimensione di ascolto.
Ecco: direi che un testo va “ascoltato”, prima ancora di poter cominciare a tradurlo.»
Di King sei traduttore italiano e a lui hai dedicato un bellissimo libro, Il re di tutti, che sa stare delicatamente in equilibrio tra saggio, biografia e autobiografia involontaria e di cui parleremo nel prossimo numero.
D: Se, o quando, un domani dovessi avere l’opportunità di intervistare il Re, quale sarebbe LA DOMANDA, quella più urgente, che vorresti rivolgergli?
«Ecco, su questo non ho una risposta. Nel senso che non avrei una domanda da rivolgergli. King ha detto tanto, forse anche troppo. Mi piacerebbe parlare con lui di letteratura, di musica.
Confrontarci sui nostri libri preferiti. Per esempio, in un’intervista ha dichiarato che i due romanzi che vorrebbe aver scritto sono Furore di Steinbeck e Luce d’agosto di Faulkner.
Gli chiederei il motivo, e mi farei raccontare cosa è stato, per lui, leggere quei due capolavori.»
Infine chiudiamo con due inviti che rivolgiamo a tutti.
Il primo: Dicci tre libri che secondo te tutti dovrebbero leggere e un autore da scoprire o riscoprire.
«Sui tre libri: te li dico, partendo dal dato di fatto che già domani sarebbero diversi. Diciamo Moby-Dick di Melville, Il rosso e il nero di Stendhal e I quarantanove racconti di Hemingway.
Un autore da riscoprire: Robert Coover, scomparso proprio in questi giorni. Per me, forse il più grande scrittore postmoderno, insieme a Pynchon.»
Leggendo On Writing di Raymond Carver mi ha colpito molto una sua citazione di Isak Dinesen. Diceva che lei, ogni giorno, scriveva qualcosa, senza speranza e senza disperazione. È una frase incisiva e spiazzante perché di solito la speranza ha un valore positivo e mi ha fatto tornare in mente una famosa intervista a Monicelli in cui la chiama una trappola e anche Rudyard Kipling che in If chiama impostori il successo e il fallimento.
Il secondo invito è quindi questo: Lasciaci con un pensiero che senza cadere nelle trappole della speranza o della disperazione ci aiuti a mettere in fila i nostri passi anche domani.
«Semplice: non scrivete per la gloria, ma neanche per voi stessi e basta.
Recuperate il piacere della pagina bianca da riempire, di una storia da raccontare, di un percorso da intraprendere. Trovate con chi confrontarvi, senza la smania di cercare a ogni costo chi vi dica che siete bravi.
Il confronto è anche critica, e durezza. E non commiseratevi, mai.
Se quello che avete scritto non trova una sua strada, ripartite con un’altra idea, un’altra storia. Lasciandovi sempre guidare dal piacere del racconto e della scrittura. Non assecondate il mercato, ma non ignoratelo neppure.
Scegliete il vostro spazio, che sia una piazza enorme o una nicchia in un muro: sarà comunque casa vostra.»