Sinossi
Chiunque abbia visto qualche film del terrore con al centro una costruzione abitata da sinistre presenze si sarà trovato a chiedersi almeno una volta perché le vittime di turno non optino, prima che sia troppo tardi, per la soluzione più semplice – e cioè non escano dalla stessa porta dalla quale sono entrati, allontanandosi senza voltarsi indietro.
A tale domanda, meno oziosa di quanto potrebbe parere, questo romanzo fornisce una risposta. Non è infatti la fragile e indifesa Eleanor Vance a scegliere la Casa, prolungando l’esperimento paranormale in cui l’ha coinvolta l’inquietante professor Montague.
È la Casa – con le sue torrette buie, le sue porte che sembrano aprirsi da sole – a scegliere, per sempre, Eleanor Vance.
Recensione
Quando Patty ha proposto in redazione uno speciale di Halloween su una figura tanto centrale nel panorama del perturbante come quella di Shirley Jackson, devo confessare di aver reagito con entusiasmo ma anche con qualche preoccupazione.
L’entusiasmo si spiega facilmente di fronte ad una autrice tanto seminale da rendere difficile, oggi, trovare narrazioni horror che non le siano in qualche misura debitrici.
Ben prima della formidabile rivisitazione seriale da parte di Netflix, affidata ad uno specialista come Mike Flanagan che con quella regia ha realizzato un piccolo capolavoro, prima persino della ben più fedele trasposizione cinematografica del 1963, Hill House è diventata modello ideale della casa infestata, influenzando generazioni di appassionati tra cui lo stesso Stephen King che, in Danse Macabre, la cita come una delle sue opere preferite.
Spesso accostata a Il giro di vite di Henry James, usata da Flanagan come base per il secondo capitolo che Netflix ha dedicato alle infestazioni, Hill House ha a mio parere una potenza evocativa del tutto sconosciuta al racconto dedicato a Bly Manor.
Shirley Jackson ha l’indubbio vantaggio di reinterpretare il Gotico dall’altezza della modernità e nel farlo l’autrice sceglie, come in quasi tutta la sua produzione, di giocare di sottrazione.
I fantasmi, se esistono, sono suggestioni lasciate alla interpretazione del lettore che è libero di scegliere le alternative che preferisce, a partire dalla suggestione collettiva fino al crollo nervoso di una protagonista immediatamente presentata sotto il manto di una fragilità che può renderne inaffidabile il racconto quanto giustificarne la sensibilità a fenomeni liminali.
Sono infatti i confini, le zone d’ombra i veri protagonisti delle suggestioni di Shirley Jackson, in una lezione che il Re sembra aver appreso appieno e persino teorizzato in tante sue opere. La terra di nessuno che separa le realtà è un luogo desolato e desolante, che si tratti delle sterpaie deserte intorno a un reticolo di filo spinato, dell’ora che separa la notte dall’alba o delle strade segrete che percorrono l’America.
Ne L’incubo di Hill House (1959)Shirley Jackson non ha bisogno di ricorrere al fantoccio desueto del fantasma che, negli anni della guerra fredda, avrebbe rischiato il ridicolo ma eleva il confine stesso a protagonista. E lo fa attraverso gli occhi di una donna sola, vittima di una sensazione di perenne inadeguatezza che le deriva da una insicurezza materiale e identitaria.
Eleanor Vance è una protagonista che non ha una casa di cui occuparsi, non è oggetto del desiderio maschile, non è madre, non è moglie, non è più nemmeno figlia ed è in questa assenza di referenti esterni cui affidare la propria identità che sembra divenire la vittima perfetta, quasi predestinata, di ciò che la attende.
Quella della assenza di una identità femminile, e della necessità di cercarla, è una visione che permea tutta la produzione della “Strega del Vermont” e che colpisce per l’immediatezza con cui riesce a far passare un tema tanto complesso pur parlando, apparentemente, di altro.
Hill House quindi non è un luogo in cui accade che i protagonisti entrino in contatto con entità soprannaturali: Hill House è essa stessa l’entità che possiede, letteralmente, chi ne varca le mura. Peggio ancora, è una entità che appare indeterminata, non mossa da una volontà propria, per quanto malevola, ma piuttosto agente di un male che coincide con la possibilità stessa di mettere in discussione la realtà.
Quello che si prova tra le pagine della Jackson non è il terrore gotico dell’ingenuo di fronte alla realtà dell’oltretomba, e neppure l’orrore cosmico dell’uomo devoto posto di fronte all’indifferenza delle divinità antiche e ostili di Lovecraft. Piuttosto è la paura che dietro il velo, che la nostra mente conosce e accetta sotto il nome di realtà, si celi altro.