La morte della cultura di massa di Vanni Codeluppi
Sinossi
A partire dalla metà del Novecento, il processo d’industrializzazione della cultura ha fatto sorgere la cultura di massa. Questa ha ottenuto un notevole successo in tutti i principali paesi, ma, dopo la sua affermazione e diffusione in larga scala negli anni Sessanta e Settanta, nell’ultimo periodo ha dovuto affrontare una crisi dei suoi prodotti di fascia media.
Una crisi, cioè, di quei prodotti che ne costituiscono la vera essenza, determinando oggi sempre più chiaramente una “morte” della cultura di massa. Il libro mostra come siamo arrivati a questa situazione attraverso una dettagliata analisi non soltanto dei maggiori cambiamenti intervenuti, ma anche di alcuni fenomeni che caratterizzano in modo particolare la cultura di massa contemporanea, come l’effetto Netflix, la “marvelizzazione” della cultura, il culto del banale.
Recensione
Perché è importante un libro come La morte della cultura di massa? È importante (e non solo) perché tutto avviene in un mondo che ha subito un’accelerazione come mai in precedenza.
Ma partiamo dal principio, dalla seconda metà del Novecento e dall’avvento della televisione.
Il capitalismo si afferma come motore imprescindibile nelle società occidentali.
In questo processo, anche la cultura viene investita, anche la cultura si ritrova ad adottare un modello produttivo di tipo industriale. L’esito finale è la nascita della cultura di massa, ovvero una cultura che cerca di arrivare a più individui. Come? Lo fa attraverso la televisione, un mezzo che dagli anni Sessanta in poi è entrato nella maggior parte delle case. Quello che caratterizza medium come la televisione e, al giorno d’oggi, il digitale, sono il linguaggio e la forma estetica.
L’accelerazione avvenuta negli ultimi anni, — un ottimo libro che ne parla è stato pubblicato qualche anno fa da Einaudi e s’intitola Accelerazione e alienazione, di Hartmut Rosa —“merito” soprattutto dei nuovi media, ha portato molto disorientamento e molte difficoltà, una costante richiesta di trovarsi sempre sul pezzo, sempre pronti a nuovi aggiornamenti.
Che cosa non ha mai convinto coloro che si sono occupati fin da subito del problema della cultura di massa?
Autori come Horkheimer e Adorno, citati da Codeluppi come tra i più importanti critici che si sono occupati del problema, hanno individuato nel prodotto culturale (radiofonico, film, riviste) una merce che ha il solo scopo di costruire e diffondere un’ideologia ingannevole.
Ma i due intellettuali della scuola di Francoforte non sono gli unici. Codeluppi si serve di una buona schiera di intellettuali come Herbert Marcuse, – ricordiamo L’uomo a una dimensione, Einaudi – Pier Paolo Pasolini, – ricordiamo l’articolo delle lucciole presente in Scritti corsari, edito Garzanti – Umberto Eco, Karl Marx, Roland Barthes, Edgar Morin, David Macdonald, giusto per citarne alcuni.
È con quest’ultimo che Codeluppi intavola un discorso molto interessante e molto importante sulla nascita e lo sviluppo di tre livelli della cultura: viene a porsi, tra la highcult (cultura alta) e la masscult (la cultura di massa, bassa), la midcult (cultura media, commerciale).
L’intento dell’industria culturale opera su una base economica che uccide la creatività artistica e la libertà d’espressione.
Perché le uccide? Perché affinché il prodotto venga messo sul mercato è necessario che esso risponda a determinate caratteristiche imposte da chi lo regola. E qui viene il bello. Chi regola il mercato?
«Il capitalismo digitale può funzionare in maniera efficace soprattutto grazie al fondamentale ruolo che viene svolto dai consumatori».
Siamo finiti a parlare di capitalismo digitale perché a oggi il monopolio è prevalentemente dei social: TikTok, Instagram, Facebook. Ed è qui la frammentazione della società e della cultura.
Qui ci troviamo nel bel mezzo della società dei flussi, ovvero quel luogo dove il modello digitale porta le persone a essere meno conclusive e meno certe. Se la televisione prima era il medium capace di impartire un unico pensiero, oggi il discorso è completamente diverso e molto più frammentario
I nuovi media rispondono meglio all’idea capitalista e di industrializzazione della cultura: ogni singolo individuo crea un insormontabile mole di dati — lavora gratuitamente per poi pagare quanto da lui “creato” — che poi gli ritorna sotto forma di merce. E tutto questo è possibile e realizzabile perché ogni singolo individuo è unico e come tale va trattato. E se l’individuo realizza d’essere unico, inevitabilmente la massa si sgretola.
Questo è anche il postmoderno, — Françoise Lyotard, La condizione postmoderna, edito Feltrinelli, è un illuminante saggio che anticipa i giorni nostri — ovvero la fine di ogni metanarrazione, di ogni ideologia che ha per molto tempo accompagnato permesso una serie di trasformazioni sociali.
C’è infine il discorso sulla televisione, sul ruolo che ha ricoperto e che man mano va perdendo. All’inizio aiutò molto la crescita civile del paese, ma oggi? Oggi pare che la televisione pubblica risponda alle esigenze del solo sistema politico sotto la quale si trova, ne persegue gli obiettivi di consenso e più nulla.
È una televisione che viene sempre più messa da parte per fare spazio a nuove realtà come Netflix. Cinema e musica ne subiscono gli stessi effetti: Hollywood negli ultimi anni si è molto concentrata sui film Marvel avviando così un processo di “marvelizzazione” della cultura.
La musica dal canto suo ha subito vari processi che l’hanno portata a una crisi della forma: oggi è prevalentemente spettacolo, solo immagine, e questo la porta a mettere in secondo piano la musica stessa.
Siamo giunti al punto del culto del banale, del solo divertimento – già condannato dal filosofo francese Blaise Pascal – e del simulacro, – anche qui, già Platone condannava la pericolosità del simulacro per i sensi stessi che venivano ingannati – della sostituzione della realtà fisica con quella artificiale.
La morte della cultura di massa si rivela un saggio fondamentale per affrontare al meglio questi tempi, per comprenderli il più possibile. Dentro si svolge una storia che parte dagli anni Sessanta del Novecento e arriva ai giorni nostri, gettando però uno sguardo sul futuro prossimo, un futuro dove l’intelligenza artificiale creerà contenuti sempre più ad hoc e sempre più personali.
Ma è davvero questo l’unico futuro? Secondo Vanni Codeluppi no e nella sua spiegazione si può essere d’accordo.
Autore
Vanni Codeluppi è uno dei più importanti sociologi italiani e insegna Sociologia dei consumi all’Università di Modena e Reggio Emilia e Sociologia dei media all’Università IULM di Milano. Le sue ricerche riguardano principalmente l’analisi dei media, della cultura di massa e dei consumi.