Viaggiare in treno ha qualcosa di ipnotico.
Il paesaggio ci scorre accanto come un film, inquadrato dalla cornice del finestrino, e noi lo osserviamo cercando pigramente di interpretare quel divenire incessante di luoghi straniati. Fiumi, campi, alberi, periferie e zone industriali si ripetono senza mai essere le stesse, come una filastrocca che si allunga nel tempo, addormentandoci.
Una signora, qualche posto più avanti, porta una sorta di turbante giallo, chissà se per vezzo o per coprire i segni di qualche malattia. Ne intravedo una tempia, gli occhi di un azzurro slavato, una mano elegante, la pelle macchiata dall’età. Con lei, un bambino dai calzoni corti, avrà sette anni al massimo. Ride, squittendo mentre scappa tra i sedili. La donna lo richiama per nome, ma è un fruscìo che si perde tra i velluti e non riesco a sentirlo. Il bambino torna infine al proprio posto, domato, sguardo basso ed espressione risoluta.
Da una borsa troppo grande estrae un libro e finalmente si acquieta.
Il treno intanto si è fermato a una stazione, dagli altoparlanti una voce femminile riesce appena a gracchiare qualcosa che già il convoglio riparte con uno scossone. Mi volto per dare un nome a questo scalo ma è già tardi, le ultime colonne di ghisa scorrono via con la pensilina e restano solo campi aridi, erba ingiallita e una rete metallica che scorre, inutile, accanto a noi.
Non posso fare a meno di pensare a Malika.
Viaggiavamo insieme, allora. Il tempo scorreva veloce, accompagnato dal suo chiacchierare sorridente e continuo. A volte la trovavo faticosa, eppure la sua mancanza, adesso, è un dolore quasi fisico.
«Secondo te cosa c’è, dopo?», chiedeva.
«Niente», rispondevo io, «dopo si è morti, non c’è più niente di noi a sperimentare qualcosa». Lei rideva scuotendo la testa, come se fossi io a non capire.
«Ma fai finta che non sia così, che qualcosa si possa ancora sentire, cosa ci sarebbe allora, dopo, secondo te?».
Io rispondevo cose terribili.
«L’inferno, per tutti», dicevo. Sono sempre stata io, quella più oscura.
Malika rideva ancora.
«Per quello che abbiamo fatto a Gesù, intendi?»
«Ma no, che c’entra, quella era la sua volontà», rispondevo. «E poi non sono nemmeno sicura che sia successo davvero. Ma se Dio esiste, e ho i miei dubbi, allora è cattivo».
«Perché?», chiedeva appoggiando un piede nudo sul mio sedile, gli occhi che si stringevano a fissare i miei.
«Perché potrebbe far cessare il male e invece lo permette, quindi se dopo la morte esiste qualcosa, allora è sicuramente l’inferno».
«Magari quello che chiami male è solo un passaggio necessario per un bene più grande», rispondeva ancora, solo per provocarmi.
«Necessario perché? Se stiamo parlando di Dio, può fare come vuole, rendere il male non necessario e il bene la condizione naturale per tutti. Non possono esserci contemporaneamente Dio e i bambini che muoiono di tumore. O l’uno, o l’altro», rispondevo piccata. Allora lei restava un poco in silenzio.
Era meschino, da parte mia, approfittarmi così della mia storia.
Malika mi amava, allora. E forse anche io amavo lei, senza saperlo.
Nella fila davanti a me, una coppia si scambia parole soffuse e sorrisi di intesa. Lui porta occhiali di corno dalla montatura squadrata, lei è una bionda dai lineamenti gentili. Al mondo intorno non riservano uno sguardo e io vorrei solo addormentarmi cullata dal suono delle loro voci, come un feto nel grembo.
«E se invece non fosse l’inferno?», chiedeva Malika di nuovo e io ero felice di sbuffare la mia esasperazione e alzare gli occhi al cielo.
Era bello potersi lamentare di queste sciocchezze.
«Allora, secondo me, dopo la morte c’è una sedia di fronte a una scrivania. Dietro la scrivania, un impiegato. Un tipo tarchiato, pettinato con la divisa da una parte», dicevo.
«Tipo sovietico?», chiedeva lei.
«Sì, un burocrate del cazzo, perfetto per il Cremlino. Che ti fa un gran sorriso e ti dice “Bentornato signor Tizio, com’è andata questa volta?», ridevo.
Malika non diceva più nulla, teneva un dito poggiato appena sotto al labbro, lo sguardo avido puntato su di me. Era questo che voleva.
Un racconto, una storia.
«Allora il tizio dice qualcosa come “In che senso questa volta? Non sono mai stato qui prima d’ora!” e l’impiegato sorride e scuote la testa. “All’inizio è normale un po’ di confusione, non si preoccupi. Se preferisce fermarsi, prima di decidere, in qualche giorno ricorderà tutto”».
Malika restava in silenzio, attenta, aspettando che continuassi.
«Il tizio a quel punto dice “Decidere cosa?”. È chiaramente esasperato, agita le mani. Così l’impiegato indica dietro di sé. “Le vede, quelle due porte?”, chiede. Il tizio le guarda. Sono identiche, due porte da ufficio di legno scuro laminato, senza targhetta. La cornice è di alluminio come le maniglie. Il tizio annuisce: “Sì, le vedo”, risponde. L’impiegato a quel punto gli spiega. “Vede, dietro una delle due porte c’è la sua vita. Se sceglie quella, allora ripercorrerà tutta la sua storia, in modo identico, dalla sua nascita alla sua morte, e poi tornerà qui, per decidere ancora una volta”. Il tizio sgrana gli occhi. “Potrei cambiare le cose? Comprare delle azioni della Apple nell’ottantadue? O invitare Lana Stout al ballo?”. Fa una pausa. “Potrei avvertire mio padre di non prendere l’auto, quel giorno?”, chiede. L’impiegato scuote la testa, sorridendo. “No, lei non ricorderebbe nulla di questo incontro, e nemmeno del giro precedente. Per lei accadrebbe tutto di nuovo per la prima volta”. Il tizio ci pensa. “Quindi mia madre, la mia infanzia…” l’impiegato annuisce: “Il suo primo bacio, tutta l’adolescenza, la prima liceo, con Szelick che la prendeva in giro. Le vacanze al mare, la pinetina, la morte di suo padre, la nascita di Carol, ogni singolo giorno di lavoro, la separazione, gli avvocati, la pensione. Tutto il pacchetto”».
Malika non sbatteva neppure gli occhi, totalmente concentrata.
«”E l’altra porta?”, chiede il tizio a quel punto. “Dietro la seconda porta c’è il nulla. Serena, perfetta, definitiva non esistenza. Fine del viaggio, e non ci rivedremo mai più”, dice l’impiegato. Il tizio lo guarda per qualche secondo, poi si mette a sedere. “Devo pensarci”, dice, l’altro annuisce. “Abbiamo letteralmente tutto il tempo del mondo”. Il tizio appoggia il mento sui pugni chiusi, gli occhi bassi. Pensa alle cose che sono successe. Alle delusioni. Al dolore. A suo padre che esce di casa senza salutarlo, dopo l’ennesima sfuriata. Era un periodo in cui le cose andavano male, quello. Pensa ai lampeggianti della polizia che illuminano il vialetto come uno spettrale albero di natale, qualche ora dopo.
Ai giorni in cui sua madre stava sul divano, spenta come una bambola a cui avessero tagliato i fili, prima di accorgersi della sua presenza. A quando se n’era andata anche lei, in una camera di ospedale. Al respiro lungo che aveva fatto, l’ultimo. L’amore, con sua moglie, quando erano giovani e sembrava che tutto dovesse durare per sempre. Le sere in cui non aveva chiuso occhio, sapendo che era finita. Quella volta in cui, solo, in una casa in affitto, era rimasto troppo a lungo a fissare le travi del soffitto, un cavo elettrico in mano, e alla fine era stato lo squillo del telefono a riportarlo giù.
Era un’offerta telefonica, ed era stato così dolce mandarli a quel paese. Le scatole di libri che sembravano non finire mai. L’odore di Carol che gli dorme addosso, a sei anni. Il suo peso sul petto. Un pomeriggio di maggio, qualche anno dopo, in cui per la prima volta è lui ad addormentarsi sulle sue gambe, lei che gli accarezza le tempie, cullandolo. I giorni da solo, dopo la pensione. E poi l’ospedale, la chemio, la scoperta di quanto incredibilmente poco possa bastare, pur di restare aggrappati alla vita».
Ogni tanto facevo apposta una pausa. Malika sembrava non respirare neppure, ma come mi interrompevo annuiva rapida e aggiungeva un «vai avanti!».
A lei importava, ascoltarmi.
«Dopo un po’, potrebbero essere minuti oppure ore, il tizio alza gli occhi. “Ho deciso”, dice. L’impiegato sorride. “Quindi?”, chiede. “Farò un altro giro, credo”, dice. “Non avevo alcun dubbio”, risponde l’impiegato, alzandosi e aprendo una delle due porte. Il tizio lo guarda ancora un secondo. “Quindi abbiamo già avuto questa conversazione?”, chiede. L’altro annuisce ancora, prima di rispondere. “Pressocché identica, sì”. Il tizio resta qualche secondo pensoso. “Quante volte?”, chiede infine. L’impiegato sorride “Me lo chiede sempre. Con questa siamo a sessantanovemilatrecentocinquantaduemiliardi ottocentocinquantanovemilioni settecentododicimila quattrocentosedici”, dice. L’altro lo guarda, sconcertato dal numero. Fa per muoversi, poi si ferma ancora. “C’è mai qualcuno che sceglie la seconda porta?”, chiede. L’impiegato si guarda intorno, imbarazzato. “Questo non lo saprei dire”, risponde, “siamo solo io e lei, per quanto ne so”. Il tizio annuisce per l’ultima volta, prima di sorridere. “Alla prossima, allora”, dice entrando nella porta. “Alla prossima”, risponde l’impiegato, chiudendola alle sue spalle».
Continuavamo così per ore, a volte per giorni interi, scherzando, inventandoci storie.
Sembra solo ieri.
Il treno ha dato uno scossone, persa nei ricordi non ho visto dove ci siamo fermati. Il panorama intorno sembra sempre lo stesso, anche se le ombre si sono allungate. La signora col turbante giallo deve essere scesa. In fondo, all’ultimo posto, un tipo alto dal cappello elaborato sistema i bagagli.
«Secondo me invece è come buttarsi da un palazzo e, cadendo, guardare la vita degli altri, che scorre dietro ai vetri delle finestre», diceva Malika allora.
«Ma no, non vale, questo è un racconto, l’ho letto in un libro anni fa!», protestavo ridendo. «Ah sì? Allora racconta tu», diceva imbronciata, pretenziosa come una bambina. E io ero felice di pescare nella fantasia una storia da offrirle.
«Niente stanza, niente impiegato. Solo un riavvolgere il nastro da capo e farlo ripartire, con un unica variante».
«Quale?»
«Casuale. Per ogni singola scelta che hai fatto, si verifica cosa accade modificando un particolare»
«Per ogni singola cosa? Tipo, vale anche per quali gomme compri una certa mattina?»
«Certo! Ogni scelta, se gomme al lampone o alla menta, se rischiare o no di nascondere il rossetto nello zaino e truccarsi al volo nei bagni della scuola, prima della campanella, ogni volta che hai scelto un paio di scarpe invece di un altro. Ogni cosa».
«Oddio, che noia infinita!», diceva crollando a braccia spalancate e io annuivo, ridendo insieme a lei.
«Un universo di permutazioni praticamente infinite e un meccanismo per cui devono essere tutte completate. Ricordi quella volta che hai bloccato per sbaglio il beauty case?».
Era successo anni prima e non perdevo occasione per parlarne.
«Ho passato quasi un’ora a scorrere tutte le combinazioni possibili, prima con le rondelle sullo zero e poi avanzando un numero alla volta, facendo forza per provare a sbloccarlo. Magari per la nostra vita è lo stesso, ognuno deve vivere ogni possibile combinazione di eventi, prima di poter scomparire per sempre»
«E che senso avrebbe?», chiedeva allora.
«Magari non serve che ne abbia uno. Magari è solo una legge fisica di qualche tipo, come un’eco, che rimbalza tra le pareti di roccia finché non si esaurisce».
«Non voglio essere un’eco», diceva. «Non lo sei», rispondevo abbracciandola, «tu sei la voce originale», concludevo con un bacio dietro l’orecchio.
L’altoparlante annuncia l’ultimo turno al vagone ristorante, alla prossima fermata lo sganceranno. Non ho fame, così osservo il cielo accendersi per metà di arancione e rosa nel rettangolo del finestrino, l’altra metà, invece, passare dal blu cobalto all’oltremare. Nelle zone industriali e lungo le strade deserte la luce scroscia, improvvisa come una grandinata gialla sull’asfalto lucido, poi ci allontaniamo e restano solo il cielo blu e le sagome nere degli alberi che ci sfrecciano accanto.
A volte arricciava le labbra piene in un sorriso di sfida. Quando eravamo più giovani ci divertivamo a scandalizzare la gente e quello era il suo segnale. Facevamo finta di non conoscerci e inscenavamo litigate furiose, Malika che mi dava della troia per qualche immaginario tradimento, oppure io che la accusavo di avermi toccato il culo. Poi, quasi invariabilmente, nel momento clou della scenata le infilavo la lingua in bocca e dopo un po’ contavamo gli sguardi di disprezzo, gli insulti, quelli che si eccitavano. I migliori a incazzarsi erano i cinquantenni, sempre incarogniti. Forse è un’età di bilanci e la maggior parte di loro si sente di non aver combinato abbastanza. E poi ormai sei dal lato sbagliato della vita, hai scollinato e quello che ti resta davanti è di certo meno divertente di quello che ti sei lasciato alle spalle. A sorprendermi invece erano i vecchi. Qualcuno si arrabbiava sì, ma molti sorridevano. Immagino sia il rimpianto, o forse la consapevolezza che la fine è vicina, a far apprezzare le gioie degli altri quasi fossero le proprie.
Una signora, qualche fila più indietro, si lamenta che non c’è più acqua corrente nei bagni. Un paio di persone sono andate a controllare, qualcuno alza la voce. Il tizio col cappello elaborato si avvicina, alza le braccia, sorride. Dice che è normale, che ci dev’essere stato un problema con la cisterna e che la riempiranno sicuramente alla prossima fermata. Qualcuno comincia a fargli delle domande e lui sembra felice, ha un sorriso e una risposta per ciascuno.
«Lei è il capotreno?», chiedo.
«No», risponde, sempre sorridendo con quella benevola condiscendenza.
«Allora non sa un cazzo. Veda di tornare al suo posto», aggiungo fissandolo negli occhi. Per un attimo spero che non si muova, dandomi l’occasione di prenderlo a schiaffi, ma dopo qualche secondo abbassa lo sguardo e se ne va. Anche gli altri tornano ognuno alla propria poltrona.
«Secondo me, dopo, c’è esattamente quello che uno pensava ci fosse», diceva Malika a quel punto.
«Quindi per ognuno una cosa diversa?», chiedevo io, dondolando la testa. «Sì», rispondeva, «per esempio, se sei un indiano allora per te ci sarà Manitù o il grande spirito o quello che è».
«Ma gli indiani non dovrebbero avere Ganesh e Krishna?», rispondevo solo per darle fastidio. «Ma no, insomma, per gli indiani dell’india sì, io intendevo i nativi americani! E per i cattolici Gesù e per i musulmani le quaranta vergini»
«E le musulmane?»
«Come?»
«Per le donne musulmane? Insomma, sai, gli uomini ok, quaranta vergini è una richiesta un po’ strana, io sinceramente preferirei tre o quattro esperte comunque diciamo che va bene, ma per le donne? Insomma, quaranta uomini vergini sarebbero una maledizione!». Dio, quanto mi piaceva romperle le scatole con cose come queste.
«Non lo so cosa ci sarebbe per le musulmane, magari la patente, una minigonna e il diritto di prendere a calci chiunque», diceva sbuffando, «comunque il senso è quello: se pensi che dopo la morte ci sia una cosa, ci trovi quella».
«Quindi a me va di merda perché ci trovo l’inferno», concludevo con un sorriso.
«Sei sempre in tempo a cambiare idea», diceva Malika, allungando il collo.
«Allora trovo te», dicevo sfiorandole il naso col mio, «però in versione esperta!», aggiungevo per farla arrabbiare.
Ci sono delle gallerie, adesso, e la luce a tratti va via. Nessuno parla più molto, anche il tizio col cappello strano se ne sta seduto, gli occhi sbarrati a guardare dal finestrino. Sembra pallido. Se non fossi così stanca andrei lì a chiedergli cosa ne pensa, adesso, di tutti questi disagi.
«Secondo me, invece, non c’è quello che uno pensa. Alla fine che sorpresa sarebbe?»
«E perché dovrebbe essere una sorpresa?», aveva detto.
«Perché in fondo è una storia, no? E una storia senza sorprese non piace a nessuno».
Malika aveva sorriso, allora.
«E cosa ci sarebbe, quindi?»
«Quello che uno vuole davvero, nel profondo del suo cuore. Quello che desidera e che non dice a nessuno, nemmeno a se stesso»
«Un paio di gambe su cui addormentarsi, cullato, in un pomeriggio di maggio, come il tizio che dicevi prima?»
«Per qualcuno quello, sì. Per qualcuno invece l’abbraccio delle persone amate, o semplicemente il nulla, la propria infanzia o un’amaca in riva al mare». Scuoteva la testa ma continuava a sorridere. «Somiglia al paradiso, questo», aveva detto. «Oppure all’inferno, dipende se sei pronto per i tuoi desideri», avevo aggiunto.
«E allora tu, cosa troveresti?», aveva chiesto lei.