La ragazza davanti a me, sull’autobus, legge Celine: il Viaggio, meraviglia delle meraviglie. Lo so perché gliel’ho visto in mano, alla fermata. Mi sono seduto dietro a lei apposta, le devo dire qualcosa, devo farlo, non lo so perché, forse perché, come al solito, sono ubriaco fradicio, o forse perché devo dire una cosa che non ho mai detto a nessuno, non lo so. Non so nemmeno se è bella, la ragazza – se è brutta: non me ne frega un cazzo. Traballo fino al posto dietro a lei e mi siedo: mi stravacco, forse è il verbo più adatto. Lei fa finta di niente, lo vedo, ma in realtà ha paura, me lo immagino, anzi, lo sento, non sono esattamente l’ideale del compagno di viaggio, puzzo e ho capelli e barba lunghi, sono vestito come uno straccione, ho la fiatata alcolica che si sente da lontano. Manca un nugolo di moscini che mi segue, e poi la scena sarebbe perfetta. Aspetto qualche tempo prima di mettermi a parlare, qualche chilometro di strada, per darle il tempo di cominciare a leggere. Comincio piano, un sussurro, quasi. Secondo me il Viaggio è un esperimento che casualmente è diventato uno dei capolavori del Novecento, solo un esperimento che ebbe seguito dalla tesi sul dottore austriaco, come cazzo si chiamava più – la tesi di laurea di Celine: il dottore austriaco la cui rivoluzionarietà, nientepopodimeno, consistette nel predicare di lavarsi le mani tra una partoriente e l’altra, addirittura. Il dottore che poi finirà i suoi giorni in manicomio, inascoltato, portato alla pazzia da un ambiente che rifiuterà quello che oggi è un fatto di mero buonsenso: lavarsi le mani del sangue di una partoriente prima di passare ad un’altra partoriente, roba da urlo. Quella tesi è già vicina al Viaggio, nello stile – periodi brevissimi, sincopati, sentenze apocalittiche – probabilmente influenzato, lo stile, dalle letture espressioniste del giovane Louis Ferdinand, magari poesia, o teatro, non lo so, immagino solo che avesse già letto i nuovissimi prodotti della letteratura, quella si, rivoluzionaria, primonovecentesca – forse tedesca, forse addirittura Benn, o Lasker Schuele. Forse Marinetti. E poi magari, dopo la tesi, ha scritto Casse Pipe – mica lo so se davvero ha scritto prima una cosa e l’altra, invento tutto, o quasi. Parlo, sentenzio, ma non lo so se son giuste le date, se quel che dico è anche solo plausibile – che poi, magari, sto parlando con una Ricercatrice che ha fatto di LFCeline la sua ragione di vita. Il libro vero, insisto imperterrito, quello suo davvero, di Celine, è Morte a credito, è lì che, ormai convinto di essere uno scrittore per davvero, pubblicato e acclamato, è lì che si svolge la sua vera vena narrativa – e poi dopo, nei Castelli, lì ancora di più, lì davvero è il romanziere che avrebbe dovuto essere, se non fosse incappato in un terribile antisemitismo piuttosto difficile da gestire, con i forni di Auschwitz in piena attività. Senza lo scivolone sul nazismo avrebbe potuto benissimo diventare il Victor Hugo del ventesimo secolo. Mi fermo per riprendere fiato, sono ubriaco di strizzo, mi riesce difficile parlare nello sballonzolare dell’autobus. Il capolavoro di Celine non è il Viaggio, continuo, è Morte a credito, e poi anche i Castelli. E basta. La ragazza davanti non mostra di aver sentito niente, oppure ho farfugliato e non ha capito quel che dicevo: suona il campanello per la fermata, l’autobus si ferma, infatti, e lei scende. Nemmeno si volta, niente. Fa niente, me ne frego. Mi addormento. Mi sveglia l’autista al capolinea, Grosseto. E ora cosa cazzo ci faccio, a Grosseto? Oltretutto c’è il controllore, insieme all’autista, che mi fa anche la multa: perfetto. Duecentoottomila lire. La ringrazio, gli dico, finalmente qualcuno che fa il suo dovere, in questo paese di merda. Mi guarda: sta zitto, serio. Mi guarda e non dice niente. Scendo. Grosseto.