Alla fine della storia
SINOSSI
All’inizio del Novecento, la bella Mirele Hurvitz vive in uno shtetl dell’Europa orientale. Anche se intorno a lei tutto sta cambiando, le sue giornate scorrono monotone: la vita di provincia, opprimente e restrittiva, è una costrizione intollerabile da cui sogna di fuggire, pensando di poter stare meglio altrove.
E così si lascia corteggiare da uomini perdutamente innamorati, illudendosi che siano in grado di indicarle la strada e dare un senso alla sua esistenza.
Ma agli occhi di Mirele aspirazioni e realtà non coincidono, e l’interruzione sistematica delle sue relazioni è inevitabile. Mentre la borghesia ebraico-russa attraversa un vertiginoso momento di passaggio, lei continua indifferente a interrogarsi su quando cominci “la vita vera”, incapace di trovare consolazione nel passato come pure di immaginare un futuro.
È una donna in rivolta, intelligente e istruita, malinconica, sensibile, che si dibatte fra memoria e progresso.
Come scrive Daniela Mantovan nella postfazione, Mirele è una figura in bilico tra un mondo scomparso e uno ancora in divenire.
E la sua instabilità, il suo essere fuori da schemi e modelli tradizionali, il suo rifiuto dei compromessi, il suo essere disposta a tutto, fanno di lei una protagonista dei nostri tempi.
Erede di una storia al tramonto, Mirele è – al pari di Madame Bovary e Anna Karenina – un’eroina incantevole, spigolosa, affascinante che ha segnato in modo indelebile la letteratura moderna.
RECENSIONE
Ci sono opere che sfiorano il lettore, come un alito di vento a primavera o una lama di luce al tramonto, altre che lo catturano, rapiscono l’intera sua attenzione e la legano allo scorrere delle pagine, fino all’epilogo.
Libri poi che lo imprigionano, costringendolo in un senso di cattività, fino a che una timida traccia di istinto di autoconservazione gli permette di chiudere le pagine di botto per poter riprendere almeno una boccata d’aria.
Questa pietra miliare della letteratura yiddish – Alla fine della storia – appartiene senz’altro a quest’ultima categoria.
L’ardita operazione letteraria dell’autore consiste innanzitutto nel tratteggiare atmosfere e paesaggi rarefatti, con la delicatezza del pittore impressionista, per poi calarci personaggi e dialoghi attraverso rapide pennellate che rendono difficile cogliere il significato dell’immagine nella sua interezza.
Lo sfondo delle lunghe passeggiate della protagonista, Mirele, diventa familiare al lettore, così come i dintorni di casa propria, ma non succede lo stesso con le idee, i pensieri e i sentimenti della povera sventurata.
La protagonista di Alla fine della storia, oltre a trincerarsi in un dolore profondissimo e incomunicabile, si lascia trascinare dalla trama, senza riuscire ad impossessarsene attivamente.
Anche quando basterebbero poche parole per modificare un destino tutt’altro che ineluttabile, la ragazza sceglie di tacere e lasciare che le cose le accadano e basta.
Mirele non è che “un punto di passaggio”: appare costretta tra un immobilismo soffocante e l’eterna ricerca di un dettaglio, che le permetta di raggiungere la felicità.
I dialoghi, in particolare le frasi pronunciate da Mirele, compongono un tipo di eloquio che sembra quasi afasico: esso è composto di spezzoni di periodi, parole passe-partout, un sottintendere di soggetti che non possono essere colti con chiarezza.
Il linguaggio si piega alla tonalità del male di vivere della ragazza, molto vicina a un’eroina di flaubertiana memoria, senza tuttavia possederne la tragica grandezza.
Ogni sforzo intrapreso o potenziale non può che essere vano di fronte a una tale esistenza asfittica.
L’autore di Alla fine della storia, come riportato nell’ottima postfazione del romanzo, scrive quest’opera in un periodo di profondo stato di disillusione: il fallimento della rivoluzione del 1905 gli rende impossibile il progetto di un futuro.
Il tempo si limita a erodere il presente, senza schiudere la promessa di un domani.
Questo stato di profondo scoramento si riflette negli atti (pochi) e nei pensieri della protagonista, che vive il presente come l’unico momento possibile, seppure fonte di estrema insoddisfazione.
A vivacizzare questo quadro fondamentalmente depressivo, vi è l’ambiente sociale in cui sono immerse le vicende: si tratta di un contesto caratterizzato da grande integrazione multiculturale, che emerge in modo evidente dall’uso delle lingue.
I dialoghi sono prevalentemente in yiddish, con prestiti dal russo e dal polacco. Occasionalmente, viene utilizzato l’ucraino per rappresentare uno strato sociale percepito come più basso. L’autore riesce così a utilizzare il concetto di identità linguistica ai propri fini socio – psicologici.
In sintesi, il souvenir che il coraggioso lettore si potrà portare a casa dopo questo viaggio nelle profondità della disperazione esistenziale, è un senso di irrisolutezza, di inettitudine, tale da rendere difficile sostenere il carico di tempi morti che appesantisce il ritmo del romanzo di Bergelson: Alla fine della storia
Se non riuscite a immaginare cosa possa essere il male di vivere, se vivete la vostra vita con il placido ottimismo e la sicurezza di chi mette un passo davanti all’altro, allora leggetelo: sarà un buon esercizio di immedesimazione per capire quanto sia paralizzante vivere la propria esistenza in balia dei dubbi.
Titolo: Alla fine della storia
Autore: Dovid Bergelson
Editore: Marsilio
Genere: Romanzi e racconti
Traduttore: Daniela Mantovan, Alessandra Luise
Autore
Dovid Bergelson nasce a Okhrimovo, in Ucraina, nel 1884.
Figlio della borghesia ebraico-russa, con Alla fine della storia, pubblicato nel 1913, firma uno dei grandi capolavori della letteratura di lingua yiddish.
Nei primi anni Venti, si trasferisce a Berlino e nel 1934 si stabilisce a Mosca. Arrestato nel 1949, il 12 agosto 1952 – giorno del suo compleanno – viene fucilato dalla polizia stalinista in quella che passa alla storia come “la notte dei poeti assassinati”.