La torre d’avorio
SINOSSI
È possibile cancellare il passato e liberarci della persona che siamo stati?
Mara Paladini ci sta provando da tredici anni, dopo aver scontato una pena in una struttura psichiatrico-giudiziaria per il tentato omicidio del marito e dei due figli.
Il nome di quella donna affetta dalla sindrome di Münchhausen per procura – una patologia che porta a far ammalare le persone che si amano per poi curarle e prendersi il merito della loro guarigione – era Mariele Pirovano, ma quel nome Mara lo deve dimenticare, perché quella persona non esiste più. Almeno questo è ciò di cui tutti vogliono convincerla. Lei però non ci crede e nella sua nuova vita in una grande città, a centinaia di chilometri dal proprio passato, ha costruito una quotidianità che la tiene lontano dal mondo, che le impedisce di nuocere ancora: non esce quasi mai e della casa procurata dai servizi sociali ha fatto una prigione di scatoloni e memorie, dove seppellire per sempre Mariele.
Un giorno però nella sua torre d’avorio si apre una breccia.
Comincia tutto con una piccola macchia di umidità sul soffitto, che la costringe ad andare al piano di sopra per avvertire il vicino. Potrebbe essere cosa da nulla, invece la scena che le si presenta è un uomo morto, con i segni dell’avvelenamento sul corpo. Mara potrebbe non riconoscerli, quei segni; Mariele invece non ha dubbi, perché così ha quasi ucciso le tre persone che amava di più.
Ora Mara sa che è stato tutto inutile, che il suo passato l’ha riagguantata: ora Mara sa che l’unica possibilità è la fuga, da chi vorrà incolparla di quell’omicidio e da chi invece lo ha commesso per incastrarla.
RECENSIONE
Digitalis purpurea, è una pianta erbacea e perenne dai grandi fiori purpurei, appartenente alla famiglia delle Plantaginaceae.
Le foglie di questa pianta contengono alcuni glicosidi farmacologicamente attivi (digitossina e digossina) che hanno potenti effetti sul cuore: aumentano la forza di contrazione del muscolo cardiaco (effetto inotropo positivo) ed hanno proprietà antiaritmiche. Sono principalmente indicati nella terapia dell’insufficienza cardiaca; tuttavia, le stesse sostanze, se assunte in dosi eccessive, possono causare seri problemi, quali aritmie e blocchi cardiaci, talora letali. L’intossicazione da digitale derivante da sovradosaggio può manifestarsi con una visione in itterico (giallo) e con la comparsa di contorni confusi (aloni), e bradicardia; i sintomi comprendono inoltre nausea e vomito. La possibile insorgenza di blocco atrio-ventricolare può condurre ad arresto cardiaco e morte…
La sindrome di Münchhausen per procura, è un disturbo mentale che affligge genitori o tutori (solitamente le madri) e li spinge ad arrecare un danno fisico alla prole (o ad altra persona incapace, ad esempio un familiare disabile o, in alcuni casi, anche a un animale domestico) per farlo credere malato e attirare l’attenzione su di sé.
Il genitore/tutore viene così a godere della stima e dell’affetto delle altre persone perché apparentemente si preoccupa della salute della prole. I metodi usati per creare sintomi nei figli sono eterogenei e spesso crudeli. Ad alcuni bambini sono state iniettate insulina o urine. Altri sono stati avvelenati con veleno per topi, purganti, arsenico, olio minerale, lassativi, tranquillanti e sedativi, sale da cucina e in un caso persino con massicce quantità di acqua.
Il gatto di Schrödinger, il paradosso del gatto di Schrödinger, ideato nel 1935, è un esperimento mentale, basato sull’immaginazione, ideato dal fisico austriaco Erwin Schrödinger ed applicata alla fisica quantistica.
Detta in soldoni, si può ridurre in questi termini: ad ogni bivio la realtà si divide in infiniti mondi generando un “multiverso quantico” – tanti universi vicini in cui ci sono infiniti noi stessi che vivono tutte le possibili strade che si aprono ad ogni bivio.
Digitalis purpurea, La sindrome di Münchhausen per procura, Il gatto di Schrödinger – tre indizi per leggere questo romanzo.
“Luca, Andrea e Clara…L’unico modo che avevo per sentirmi vicina a loro era questo. Non conosco altra maniera di amare. Se amo, avveleno, e poi curo. Non esiste formula diversa, per me”.
Ho avuto il piacere di incontrare Paola Barbato a Bookcity Milano 2024, presso lo splendido Salone degli Affreschi della Società Umanitaria, e a parlare con lei del suo libro c’erano Isabella Fava, giornalista, e Massimo Fiorio, musicista e scrittore italiano.
Paola Barbato inizia subito a raccontarci la genesi di questo libro, com’è nato, e di come in mezzo alle mille letture che fa regolarmente, le sia capitato di leggere della sindrome di Münchhausen.
Le si è aperto un mondo e ha cominciato ad approfondire l’argomento, tanto che ha iniziato a snocciolarci i vari modi che le madri utilizzano per avvelenare i figli. Eh sì, avete capito bene. Perché, come avete potuto leggere qui sopra, la sindrome di Münchhausen si manifesta molto spesso nelle madri nei confronti dei figli recando loro un danno fisico. Tornando ai modi per avvelenare i figli ce ne ha elencati tre: veleno per topi; uso improprio di un medicinale; invenzione di un veleno. Interessante, vero?
La storia inizia subito col botto, perché già nel primo capitolo, già dalle prime righe si percepisce la genialità di questo romanzo – La torre d’avorio – e la scrittura ipnotica della Barbato trascina il lettore dentro le sue spire psicologiche fin da subito.
Di sicuro il lettore non si annoierà durante la lettura delle 416 pagine. E’ un bel romanzo page turner.
Interno milanese. Casa di Mara Paladini. File e file di scatoloni bianchi impilati uno sull’altro a formare uno schema. Dentro, tutta la sua vita passata, prima dell’Evento. Qui si è costruita la sua personale Torre d’avorio. Unico contatto con il mondo esterno una finestra, davanti una tenda con tre buchi per osservare cosa succede fuori.
Una piccola macchia di umidità sul soffitto, che la costringe ad andare al piano di sopra per avvertire il vicino. La scena che le si presenta è un uomo morto… con i segni di avvelenamento sul corpo. Mara potrebbe non riconoscerli, quei segni; Mariele Pirovano – lei nella sua vita di prima – invece sì, perché l’uomo è stato avvelenato dalla stessa sostanza usata da lei con la sua famiglia. E non sarà l’unico cadavere che troverà con i segni dell’avvelenamento…
“Tirò una riga sui nomi di Moira, Beatrice, Maria Grazia e Fiamma. Non si fidava di sé stessa ma di loro quattro sì.”
Durante la presentazione, Paola Barbato ci ha raccontato che il romanzo racconta la storia di cinque donne.
Tutte hanno vissuto una frattura nella loro vita, un prima e un dopo, e tra questi due istanti si sono incontrate, rinchiuse in una struttura detentiva psichiatrica, la cd. REMS (residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza), conosciuto anche come il vecchio OPG, Ospedale psichiatrico giudiziario.
Cinque donne completamente diverse, che hanno commesso crimini diversi mentre non erano presenti a loro stesse.
È questo trauma condiviso che le unisce in una maniera così profonda da superare tutti gli altri generi di legame.
Le loro storie formano la storia nella storia. E a un certo punto sembra quasi che la parte thriller vada in secondo piano per essere immersi nelle storie di ciascuna di loro.
“Quelle donne non erano sue amiche, erano solo compagne di sventura, persone che avevano subito il suo stesso trauma, la malattia psichiatrica, la detenzione. Non erano le affinità a unirle, ma un legame di sopravvivenza, come tra malati della stessa patologia o superstiti di una sciagura aerea”.
Queste cinque donne sono destinate a rimanere separate, fino a quando una di loro, Mara, che ha scontato otto anni di detenzione per avere sistematicamente avvelenato la sua famiglia, solo per potersi sentire utile e curarli, non si trova messa all’angolo: su di lei, incombente, la colpa per un delitto che non ha commesso.
Ed è questo l’attimo in cui tutte e cinque tornano a essere una cosa sola e a supportarsi a vicenda. Perché La torre d’avorio è anche un romanzo corale che parla di sorellanza e di volontà di rinascita.
Paola Barbato ci confida che le donne del romanzo non sono proprio cinque, ma sono sei…la sesta è lei stessa che è stata agguantata dalle loro mani per tenerla a galla.
“Ho respirato perché loro mi hanno fatto respirare, sono andata avanti perché loro mi sospingevano, non ho avuto troppo freddo perché loro mi scaldavano.”
Inoltre, ci rivela che in ognuna di loro ha messo un pezzetto di sé: come Mara non butta niente; Moira è un personaggio ‘aspirazionale’ nel senso che vorrebbe essere come lei, ‘dritta, sicura, convinta’; Fiamma, che è l’elemento sexy del gruppo, vuole sempre avere il controllo su qualcuno e lei di riflesso tende ad accondiscendere sempre; Maria Grazia è quella meno presente, che agisce meno, quella che manda giù sempre ma quando sbotta lo fa bene e ci confessa che su di lei ha scritto meno perché la sento molto vicina; infine, Beatrice è una tombarola, che ha il feticismo verso i morti – cosa ci sia di lei in Beatrice non ce lo ha svelato…
“E’ un’arte. Ciascuna di noi in questa stanza ne possiede una. Fiamma sa ingannare chiunque, Beatrice conosce la morte meglio della morte stessa e io… diciamo che sono brava a inquadrare la gente. E a riconoscere il male. E lo vedo, in me, in te, in tutte noi.”
Il titolo La Torre d’avorio – quella che si crea in casa Mara – ha chiaramente un significato simbolico, è una forma di reclusione fisica, ma anche psicologica: è un modo per espiare il suo ‘peccato’, è un memento perenne.
In questo romanzo – ci svela – si possono vedere frammenti di vari film famosi: da Thelma e Louise, a Qualcuno volò sul nido del cuculo a Ragazze interrotte. Che un giorno anche da questo romanzo venga tratto un film? Ci vedrei bene le attrici italiane Alba Rohrwacher, Valeria Tedeschi, Valeria Golino…
“Ho un debito con Mara, Moira, Fiamma, Maria Grazia e Beatrice, e il solo modo che conosco per saldare questo debito è liberarle, donarle a voi, lasciare che vivano tutte le vite possibili.”
AUTRICE
PAOLA BARBATO, classe 1971, milanese di nascita, bresciana d’adozione, prestata a Verona dove vive con il compagno, tre figlie e due cani.
Scrittrice e sceneggiatrice di fumetti, sceneggia dal 1999 Dylan Dog per la Sergio Bonelli Editore, oltre a partecipare a diverse altre serie a fumetti. Ha pubblicato per Rizzoli, Bilico (2006), Mani nude (2008, vincitore del Premio Scerbanenco, da cui è stato tratto un film nel 2024), Il filo rosso (2010).
Con Edizioni Piemme ha pubblicato Non ti faccio niente (2017), la trilogia Io so chi sei (2018), Zoo (2019) e Vengo a prenderti (2020), quindi L’ultimo ospite (2021), La cattiva strada (2022) e Il dono (2023).
Dal 2019 collabora anche con Il battello a vapore scrivendo libri per bambini e ragazzi. Nel 2009 ha scritto la fiction Nel nome del male per Sky.