Sul romanzo , lo spirito dell'Europa - Milan Kundera
Sul romanzo , lo spirito dell'Europa - Milan Kundera
FILE PHOTO: Writer Milan Kundera is pictured in Prague, former Czechoslovakia, May 6, 1963. CTK Photo/Frantisek Nesvadba via REUTERS

Sul romanzo, spirito dell’Europa 

FILE PHOTO: Writer Milan Kundera is pictured in Prague, former Czechoslovakia, May 6, 1963. CTK Photo/Frantisek Nesvadba via REUTERS

Milan Kundera ha affiancato alla sua attività di romanziere quella di insegnante di universitario prima a Praga poi a Parigi, poi a Rennes, e di saggista.  Le due attività presentano un affascinante parallelismo, tanto che se sintetizziamo in alcuni termini chiave i temi portanti dell’attività di saggista di Kundera, scopriamo che vengono fuori i termini contenuti nei titoli dei suoi romanzi: scherzo, oblio, riso, leggerezza, identità, lentezza, immortalità.

Nei suoi saggi, fra i quali ricordiamo,  L’arte del romanzo del 1986, I testamenti traditi dal ’93, Il sipario del 2004, Un incontro del 2009, egli si è interrogato sul ruolo della letteratura e sul significato del romanzo nella costituzione dell’identità dell’Europa e della modernità.  Analogamente ad Husserl, che aveva considerato l’Europa in primis non uno spazio geografico o geopolitico, ma un’idea germinata dalla filosofia, Kundera parla degli europei come figli del romanzo. «Un sipario magico, intessuto di leggende, era sospeso davanti al mondo. Cervantes mandò Don Chisciotte in viaggio e strappò quel sipario. Il mondo si aprì davanti al cavaliere errante in tutta la comica nudità della sua prosa».

La parola prosa, non a caso, indica non solo ciò che non è scritto in versi, ma anche il carattere concreto, quotidiano della vita.

Che il romanzo sia l’arte della prosa è il senso peculiare di quest’arte di svelare con l’arma che gli è più propria (lo humour) l’anima delle cose. Il romanzo nasce in parto gemellare con le opere di Cervantes e di Rabelais, entrambe sotto la stella dello humour che, scrive Kundera, è «ben diverso dal riso, dalla beffa, dalla satira», è il quid che «rende ambiguo tutto ciò che tocca», il «lampo divino che rivela tutta l’ambiguità morale del mondo e la profonda incompetenza dell’uomo a giudicare gli altri – lo humour, l’euforia che nasce dal conoscere la relatività delle umane cose, il bizzarro piacere che deriva dalla certezza che non ci sono più certezze». 

Cervantes, strappando il sipario della preinterpretazione, ha inaugurato una nuova arte, che ha quindi un forte valore gnoseologico.

La posizione di Kundera è netta: la finalità del romanzo non è ludica, né tantomeno pedagogica o psicologica, bensì conoscitiva, è emersa in tutta la sua portata nel Novecento, in quelli che Kundera chiama «i romanzi che pensano».

Contro Balzac che reputava che il romanzo dovesse «far concorrenza allo stato civile», cioè per fare risultare vivi i personaggi dare su di loro il maggior numero di informazioni (fisionomia, data di nascita, nome dei genitori, timbro della voce, loro evoluzione, ecc.. ecc..), i romanzi gnoseologici si basano sul criterio dell’inverosimiglianza e i loro protagonisti non hanno spesso cognome e talvolta neanche nome: Ulrich de L’Uomo senza qualità è sprovvisto di cognome, il protagonista del Processo si chiama soltanto Josef K., quello del Castello perderà addirittura anche il nome per limitarsi ad un’iniziale, i personaggi stessi di Kundera, spesso hanno solo il nome di battesimo o vengono indicati unicamente come “il quarantenne”, “la rossa”, “la madre”.

Riguardo il problema dell’Io, il romanzo nasce già smaliziato attraverso il mirabolante Alonso Quijada, gentiluomo di campagna che ha deciso di diventare cavaliere errante e di chiamarsi Don Chisciotte della Mancia. «Come definire la sua identità? – si chiede Kundera – Egli è colui che non è».

Tutto, in quel romanzo, è una sovversione della logica dell’identità: una bacinella viene scambiata per elmo, una prostituta è una dama e viene amata di un amore puro e stilnovistico; ma in effetti Cervantes spiega forse che non ha importanza chi sia Dulcinea, ha importanza solo l’Amore che sente Don Chisciotte per lei; o che crede di sentire perché è un cavaliere e tutti i cavalieri devono essere innamorati.

Quindi Cervantes ci sta forse dicendo che si può amare una donna senza conoscerla, addirittura rivestendola di una identità immaginaria, continuando a credere a questa identità immaginaria creata dal nostro bisogno anche quando la realtà ci fornisce mille prove contrarie.

Ma è questa una follia esclusiva al povero Chisciotte oppure questa è la pratica “normale” dell’amore? 

Il romanzo è pervaso dalla stessa “passione del conoscere” che Husserl considera l’essenza spirituale europea, ma non ha mai abbandonato il mondo della vita, anzi, è divenuto il canto di quel mondo.

La filosofia, dice Kundera, «elabora il suo pensiero in uno spazio astratto, senza personaggi e senza situazioni», il romanzo invece «non abbandona mai il cerchio magico della vita dei personaggi».

Rabelais ci ha insegnato che il romanzo è «il territorio in cui è sospeso ogni giudizio morale».

L’unica morale del romanzo è la sospensione del giudizio morale in virtù della comprensione, e in ciò esso costituisce un’oasi per un’epoca che, come vedremo, processa tutto e tutti. Chi condanna Emma Bovary perché è un’adultera o lo straniero di Camus perché è un assassino è irrimediabilmente fuori dal pensiero del romanzo. «I personaggi romanzeschi non chiedono di essere ammirati per le loro virtù, chiedono di essere compresi, il che è completamente diverso». 

Il tentativo di salvare ciò che è perituro, di «pietà dell’effimero» la definisce Kundera, ha portato il naturalismo a voler descrivere con sempre più esattezza i particolari dell’esistenza, ma questa aderenza totale alla realtà è diventata paradossalmente irrealista: come uno zoom che, nel tentativo di farci conoscere pienamente un particolare, sfoca a tal punto l’oggetto della visione fino a renderlo lontano dalla nostra percezione sensoriale della realtà.

La vocazione estrema di restituire la vita così com’è, di identificare il tempo del racconto con quello della vita, è rappresentata dall’Ulisse di Joyce, dove per realismo i pensieri non vengono più tradotti nella logica del discorso ma restituiti nel loro ininterrotto e caotico fluire e dall’iper-realismo di Kafka, colui che «ha aperto un varco nel muro del verosimile».

Nessuno prima di lui aveva pensato che per vedere la fisionomia di un uomo occorresse descrivere uno scarafaggio. Bisogna dare atto a Kundera di restituire un Kafka fresco, nuovo, differente dalle consuete interpretazioni. Il Kafka di Kundera è estremamente ironico, i veri disperati, dice con irrisione Kundera, sono i kafkologi, che si sono interrogati senza sosta sulla vera colpa dell’imputato Josef K., divenendo i veri pubblici ministeri. Bisogna ammettere, annota Kundera, che il processo che la critica letteraria ha fatto del romanzo, non è meno kafkiano del processo descritto nel libro. La verità che Kafka ha svelato – che è una verità legata al secolo di cui il romanzo partecipa – è che K. è colpevole non perché si è macchiato di una colpa, ma perché è stato accusato.

Prima che la psicoanalisi scoprisse i processi oscuri della colpevolizzazione o che la prassi politica del marxismo parlasse della necessità di fare autocritica, Kafka ha messo in scena la verità di un accusato che non reclama la sua innocenza, ma che finisce per mettersi lui stesso alla ricerca della propria colpa, ripercorrendo tutta la sua esistenza.

Kundera, che per ragioni biografiche ha conosciuto la logica della colpevolizzazione praticata dai regimi dittatoriali, nei quali le vittime il più delle volte finivano per identificarsi con la verità dei carnefici, riconosce a Kafka la capacità di avere compreso la potenza assoluta del Processo; anzi di avere codificato due parole (tribunale e processo) rivelatesi chiavi per decifrare la Storia del Novecento.

Già nelle pagine di Kafka era chiaro che nel ‘900 il processo non viene più celebrato per fare giustizia, ma per annientare l’accusato.

Ma lo spirito del processo non si è esaurito con la scomparsa dei totalitarismi. Finiti questi, sono state le democrazie euopee a processare artisti, filosofi, poeti: Gide, Heidegger, Céline, Pound, Majakovskij, Brecht, fino ad arrivare alla repubblica islamica dell’Iran che condanna Salman Rushdije, il cui caso è paradigmatico del pericolo che corrono l’Europa e il romanzo.

Ciò che è accaduto con lo spirito del processo – che dalle dittature è traslato alle democrazie – è accaduto anche con altre forme “totalitarie” quali la burocratizzazione di ogni aspetto del vivere comune e la violazione della vita privata.

Tutte queste insidie, si trovano preannunziate nella “enciclopedia del secolo”: «nella Cacania musiliana c’è già tutto: il regno della tecnica che domina su tutto: il regno della tecnica che domina su tutti e trasforma l’uomo in cifre statistiche […]; la velocità come valore supremo del mondo inebriato dalla tecnica; la burocrazia ottusa e onnipresente (gli uffici di Musil rappresentano in grande l’equivalente di quelli di Kafka); la comica sterilità delle ideologie ormai inette a capire e a dirigere alcunché (sono già lontani i tempi gloriosi di Settembrini e Naphta); il giornalismo erede di ciò che un tempo era chiamato cultura; i “collaborazionisti” della modernità; la solidarietà con i criminali come espressione mistica della religione dei diritti dell’uomo».

Musil mette in mostra che il romanzo è decisamente il superamento dell’atteggiamento lirico sul mondo.

Nell’epoca incapace di poesia, in cui viviamo, il lirismo è divenuto Kitsch, che è «l’impudica esibizione di un cuore sempre turbato» e rappresenta «il male estetico supremo». 

Quella attuale non è più un’età lirica, e il romanzo reagisce al disincantamento del mondo con il riso. Rabelais ha coniato una parola, agelasti, per indicare coloro che non sanno ridere. C’è un’assoluta incompatibilità tra il comico e il sacro. Ovviamente vi sono anche gli agelasti laici che considerano sacri valori quali la maternità, l’amore, il patriottismo, la dignità umana, e sui quali quindi è vietato ridere.

È proprio l’esistenza degli agelasti, scrive Kundera, a conferire «al comico la pienezza della sua dimensione, ne mostra il carattere di sfida, di rischio, ne svela l’essenza drammatica». Gli agelasti sono più che mai attivi ai nostri giorni e la condanna a morte che pende su Salman Rushdie è l’emblema, per Kundera, di una rivolta contro lo spirito del romanzo, ossia contro il tipo di saggezza che esso rappresenta. 

Ora, se la ragion d’essere del romanzo è di tenere il “mondo della vita” sotto una luce perpetua e di proteggerci contro “l’oblio dell’essere”, l’esistenza del romanzo non è oggi più necessaria che mai?».

L’invito di Kundera è di lottare, in quanto europei, contro l’idea di Verità totalitaria e unica, di credere ancora che l’Europa moderna non sia nata solamente col gesto eroico di Cartesio che pose a fondamento di tutto l’io pensante, ma anche con quel Don Chisciotte che uscì di casa e non fu più in grado di riconoscere il mondo come Unità:

«intendere, come fa Cervantes, il mondo come ambiguità, dover affrontare, invece che una sola verità assoluta, una quantità di verità relative che si contraddicono (verità incarnate in una serie di io immaginari che si chiamano personaggi), possedere dunque come sola certezza la saggezza dell’incertezza, richiede una forza altrettanto grande».

Autore

  • Deborah Donato

    Laureata in filosofia, ha pubblicato testi su Wittgenstein, la cultura viennese di inizio Novecento, e ha tradotto testi di Hegel e Schrödinger. Appassionata di letteratura russa e fanatica proustiana, è attualmente insegnante, critica e lettrice accanita.

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