Pianpetrucci

Chiedo un passaggio verso casa, a cinque o sei chilometri, verso Bibbiano. Non mi s’incula nessuno, niente, manco mi rispondono. Una addirittura mi dice che sono tre ragazze, quindi, scusa, ma no. Guarda, faccio io, non è che io sia conosciuto come maniaco sessuale, oltretutto, aggiungo, sono anche un po’ stanchino d’ormoni, potete stare tranquillissime, anzi: diciamo che siete in una botte di ferro. No, mi dispiace, siamo fidanzate. Borbotto che io mica son geloso, ma non mi sentono, e allora sai cosa, vado a piedi, e vaffanculo al cattolicesimo. Cammino e la polvere che alzano le macchine delle fidanzate e dei fidanzati mi avvolge e in breve mi ricopre: sembro una scultura del Cecioni (Firenze, 1836/1886), oppure di Laurence Edwards (1967 – ), che costruisce le sue opere su telai in ferro ricoperti di fango schiacciato e poi spalettato e picchiato in diversi modi. Sono praticamente sabbiato, ormai si fa fatica a riconoscere fattezze umane sotto al metro e mezzo di polvere misto sudore e ghiaione. A Pianpetrucci, un podere sulla strada per Bibbiano/Buonconvento, c’è una distesa di una decina di ettari di girasoli. Decido che lì in mezzo, Scultura di Mota, farei la mia porca figura. Si, decisamente si. C’è un’altana di avvistamento per gli incendi estivi. Ci salgo, e mi accoccolo sul piedistallo che c’è in cima. Del resto quella dello stilita è una carriera che mi ha sempre affascinato, fin da ragazzo. Mi son sempre chiesto una cosa sola: cacavano col culo in fuori o come? Franceschino Lo Stilita però è davvero ganzissimo.

Stilita Con Girasoli potrebbe anche essere un titolo davvero carino, se quello psicolabile di Van Gogh non avesse reso il girasole un luogo impervio dell’inconscio collettivo. Poi, in questi giorni, c’è quella faccenda degli orecchi che un po’ fa noia. E allora mi sdraio a troia morta in mezzo alla strada: o mi sbranate al suolo o mi date un passaggio, nubili celibi e aspiranti quondam.

Fine.

Fotogrammi

I fotogrammi si succedono velocemente, uno dopo l'altro, senza nessun mixaggio, si passa da una foto all'altra, sempre la stessa inquadratura, sempre lo stesso posto con lo stesso protagonista, però in diverse posizioni e diversi abiti e diverse stagioni. Sta aspettando sempre la stessa navetta che o lo conduce al lavoro o lo riporta a casa - o cioè, casa: all'appartamento che l'azienda gli ha temporaneamente affittato. Quindi il succedersi dei fotogrammi dà un'illusione di movimento, di trascorrere del tempo, di azione o comunque di un qualche succedere. Nella prima è assorto, vestito da cuciniere, da lavapiatti, da plongeur, per la precisione, e si scaccola - si scaccola perché ancora, è Aprile, non ha scoperto che ci sono telecamere ovunque, anche lì fuori, anche alla fermata della navetta. lo scoprirà più avanti a sue spese. E quindi, si diceva, si scaccola. Nella seconda inquadratura invece non è più vestito da cuciniere, è in civile, fuma, come sempre: appena terminato il lavoro, si fuma, chiaro. Nella terza, nella quarta, nella quinta - insomma, si va svestendo progressivamente, all'aumentare delle temperature, all'avvicinarsi dell'estate. Via il berretto di lana, via la giacca, via i pantaloni lunghi, via le scarpe, largo alle ciabatte infradito. Nell'immagine relativa al sedici di luglio lo vediamo completamente nudo, con una minchia eretta di cinquanta cm circa, dorata, e una cresta di capelli verde smeraldo. Suda copioso, e fuma, ancora, e sogghigna. Nella successiva è invece vestito da suorina, con la cuffietta, le manine giunte, ma appena l'inquadratura si avvicina gli esce una bestemmia terribile, fortissima, con dei denti in fuori che farebbero invidia al conte Vlad. Nella successiva ancora è la copia sputata di Bette Davis da vecchissima, vai a sapere come mai. Più avanti mostra dei fogli scritti in grosso, con delle parole, mano a mano butta via i fogli e costruisce un discorso, tipo andate tutti a fare in culo, o una cosa del genere. Le inquadrature, alla fine, saranno circa centottanta, una discreta collezione. In quella di ieri c'è anche il suo coinquilino, un bimbo siculo, ne parleremo poi.
Resta solo un'inquadratura, neanche tra le migliori, un po' sfocata, in cui si riconoscono dei grossi lacrimoni che gli scendono sulle guance, e si intuiscono anche i singhiozzi, e i gemiti, e all'avvicinarsi della navetta si vede lui che fa no con la mano, no, vado a piedi, grazie lo stesso. Non vi voglio. E basta.

TAKE YOUR TIME

Certo che ve li lavo, questi cazzo di piatti, di stoviglie, di vassoi e pentole, tegami, padelle, certo che ve li lavo, e rido felice delle confidenze che vi prendete, ah ah ah, il lavapiatti, ah ah ah. Un brindisi allo staff – in sala, forza, in sala, mettetevi in ordine, legati per bene il grembiule, togliti i guanti. Applausi, grazie, grazie, cheese. Are you from Maghreb? Sudo a rivoli grassi, sudo a fiotti potenti, sudo come una carpa morta, come un pezzo di lesso andato a male, come una salsiccia nella frittata portata al pranzo in pineta a ferragosto. Su, a tavola, ragazzi, su, è pronto. No, non mi va la panzanella, mamma, ci sono i cetrioli, io i cetrioli li ho sempre odiati, li ho sempre. Prendo la lasagna, non mangiare troppo che poi non puoi fare il bagno. Chi ci mette il culo per la pista? E le palline con Gimondi e Merckx e Adorni, Motta e Bitossi. Chi li fa i piatti? Io, cazzo, li faccio io, i piatti, e le teglie incrostate, e migliaia di posate, e il Bimby e il Planetario e il Pimer, fanculo il Pimer. Prendi il tempo, il ciclo della lavastoviglie è il tuo cuore, il tuo tempo, il tuo umore, il tuo unico amore, prendi il tempo. Arrivo, mamma.

SCHIZZI

Non so esattamente cosa sta dicendo, forse una qualche battuta, un pettegolezzo, la ricetta di un piatto messicano che non mi ricordo il nome. Alza anche la voce, intervalla il fluire ininterrotto di sillabe e interiezioni varie con rumorini strani: tipo - che ne so, un colpo di tosse in falsetto, un singhiozzo a mezzo rigurgito, una scoreggia fischiata. Potrebbe continuare per ore, giorni, potrebbe anche non smettere più mai. Noto, fra una sputazza e un congiuntivo sbagliato, che le commessure tra le piastrelle sono davvero sporche, avrebbero bisogno di una pulizia a fondo. Varichina, forse, magari un acido forte - ma si sciuperebbero le piastrelle. Grattar via il possibile con la punta del coltello, e poi soda, decido. Intanto il soliloquio è trascorso in conversazione, è entrato un altro tizio che sente impellente il bisogno di produrre rumore a mezzo labbra, pure lui. E' endemica, la faccenda. Faccio, al tipo nuovo: guarda che hai la patta aperta. Ti sei anche schizzato i pantaloni verdi di piscio, noto, ma questo non lo dico. Si alza la cerniera e dice: la guardi in faccia, te, la gente. Dipende, rispondo io. Da cosa dipende, mi fa. Dipende dalla faccia. Vorresti forse dire che sono una faccia di cazzo? Ridiamo tutti e tre. Mi stiro il grembiule con le mani e torno nelle mie stanze - alla plonge. Plongeur. Ma dalle mie parti si dice lavapiatti. Di là intanto rimbombano: la Juventus, le sorti della canzonetta italiana, i meriti del Duce, povera stellina. Mi devo ricordare di mettere a bagno i fagioli. Devo ricominciare a mangiare la carne, è un problema: non mi va giù, mi fa schifo tutta, la carne. Magari domani faccio uno spezzato con i fagioli. Domani è lunedì, cazzo, devo andare a casa, devo controllare gli or

PORO DANTE

Non mi ricordo più dove ho letto che la famiglia di Dante era proprietaria di più di venti poderi. Credo che la mezzadria fosse di là da venire, quindi i mezzadri erano forse quartadri, sestadri: diciamo che per una quindicina di ore di lavoro al giorno – di tutta la famiglia, compresi gli embrioni – quindi al netto del Contratto Nazionale Giornaliero (facciamo undici anni di lavoro di un parlamentare odierno), toccava loro un chilo di merda di capra, perché le capre ci danno sotto col sale, e il sale valeva un botto, più un sacchetto di juta di strigoli sfioriti, tre cacarelli di lepre a mo’ di spezie, e sei moggi di grano, preziosissimi – perché servivano ad adescare l’unica proteina concessa all’alimentazione del contado: il topo. Il topo si mangiava la domenica sul presto, perché così si aveva modo di godere dei preziosi ruttini che venivano a gola nel corso della giornata. Un po’ come si fa oggi coi tartufi. Povero Dante, quant’ha patito. Chissà Catone le centinaia d’ettari: poro Catone. Quasi vien da chiedersi se il Vanni – Fucci – Bestia – non avesse anche un qualché di ragioni.

Autore

  • Francesco Simoncini

    Nasce, io, a Volterra, Pisa, Toscana. Riesce, sempre io, a diplomarsi a stento in ragioneria. Si iscrive a Lettere a Pisa, ma forse avrebbe preferito Testamento, o al limite Fare. Non si laurea affatto, perché intorno ai venticinque anni si trasferisce a Berlino, ci rimane tre anni, e a cinque esami dalla laurea smette di studiare. O bravo. Comincia a girare per ristoranti e bars, cameriere, cuoco, commesso, giardiniere, imbianchino, falegname, manovale e scrittore dalle sei a mezzanotte. Fa anche il libraio, a Pisa. Attualmente vive di sussidi vari e lavoretti saltuari. Un pezzente, per farla brevina. Spera, anche per quest'anno, di trovare un lavoro stagionale in un qualche ristorante sulla via del mare. Ma si accontenterebbe anche di un camerierato ai piani in uno dei settecento alberghi dei dintorni. Mi dimenticavo: è tornato, io, a Volterra nel 2001, dopo aver vissuto a Berlino, ma s'è già detto, poi a Pisa, a Livorno e anche in altri posti che ora, io, non si ricorda. E' nato il 4/10/66, per S.Francesco. Ha quindi cinquattotto anni, anzi no, cinquantasette e quattro mesi. Grazie. Ma grazie di che?

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