In occasione degli Stati Generali del Genere abbiamo avuto il piacere di proporre questa intervista a Luca Ongaro sul Commissario Campani e la battaglia di Adua, in una lunga camminata tra le vie di Bologna.
Buongiorno Luca e grazie per aver accettato di fare questa intervista “ON The Road”! Vediamo come viene, che ne dici?
«Buongiorno, prima di tutto grazie a voi, ci proviamo dai. Allora, che ne pensi de L’enigma di Macallè?»
A me è piaciuto molto, soprattutto mi piace l’ambientazione che è la stessa di Un’altra storia e a cui mi sono immediatamente affezionato. È un libro sereno che racconta un altrove sicuramente possibile. Se dovessi trovargli un difetto, a essere onesto, devo dire che la soluzione “enigmistica” non mi ha soddisfatto, l’ho trovata un po’ artificiosa, poco in linea col personaggio della vittima, ma è un particolare.
«No no, lo so benissimo che è artificiosa e in effetti è stata una invenzione che ho trovato per chiudere il libro quando ormai era quasi completo, avevo scritto tutto e mi mancava giusto la soluzione.»
Ma di solito un giallista non parte dalla soluzione per costruire a ritroso l’enigma?
«Sicuramente quelli esperti sì, ed infatti è quello che ho fatto anche io nei romanzi successivi, ma quando l’ho scritto, anzi quando ho scritto questa serie di libri, perché al momento sono cinque, non avevo la benché minima ambizione letteraria. Anzi, ti dirò: li ho scritti per fare un regalo di Natale a un gruppo ristretto di amici. »
E come ti è venuto in mente di regalare dei libri scritti da te? E soprattutto, gli amici hanno apprezzato?
«Allora, il primo libro nasce dalla mia esperienza in Eritrea con la cooperazione internazionale. Diciamo che è cresciuto come idea per quasi otto anni, per cui quando ho cominciato a scriverlo era già tutto pronto nella mia testa, bastava solo metterlo su carta e a quel punto l’ho scritto di getto in pochissimo tempo, diciamo un mese. Era l’estate del 2016; ne ho fatto stampare qualche copia e l’ho regalato agli amici per Natale, convinto che la mia avventura da scrittore sarebbe finita lì. Il problema è nato dopo, perché gli amici lo hanno apprezzato così tanto che mi hanno subito chiesto un seguito. Io al momento avevo risposto di sì pensando che tanto il primo lo avevo scritto in un mese e che ci avrei messo lo stesso tempo o poco di più. Ci avevo preso gusto, insomma.»
E invece?
«E invece la seconda volta il libro non lo avevo in testa! Così mi è servito molto più tempo e l’ho scritto seguendo i personaggi e lasciando che la storia venisse fuori da sola, però alla fine mi sono accorto di non avere una chiusura soddisfacente e mi sono dovuto inventare una chiave per risolvere l’enigma che avevo creato io stesso.»
Mica facile!
«Per nulla! Una dura lezione. E infatti dal terzo in poi ho imparato a farmi le scalette complete prima ancora di cominciare a scrivere. Che poi ho scoperto è quello che fanno tutti i giallisti esperti. »
E dei cinque libri che finora hai dedicato al commissario Campani, qual’è il tuo preferito?
«Nel frattempo sono diventati sei… Devo dirti la verità: a parte il primo, a cui sono molto affezionato, che mi è cresciuto dentro per tanti anni e che anche oggi nonostante alcune ingenuità trovo buono, perché a distanza di tempo anche i tuoi libri riesci a valutarli più oggettivamente, i miei preferiti sono gli ultimi, perché come ti dicevo sono quelli in cui ho preso più confidenza con il mezzo, con la scrittura.»
E quando avremo il piacere di leggerli?
«Questo andrebbe chiesto al mio editore (ride)! Diciamo che dopo il cambio di proprietà che è avvenuto in SEM un anno fa il nuovo piano editoriale non è ancora chiarissimo, ma di queste cose lascio che se ne occupi il mio agente, diciamo che spero di poterti dare una risposta prima possibile.»
E dal regalo di Natale alla cerchia di amici stretti alla pubblicazione con SEM come ci sei arrivato?
«Sempre per caso. Per sfizio e su insistenza degli amici ho mandato una copia di “Un’altra storia” ad alcuni editori, tra cui SEM. Mi ricordo che era un giovedì sera. Una semplice mail con il file pdf allegato. Tre giorni dopo, la domenica mattina, mi squilla il telefono e si presenta Riccardo Cavallero per dirmi che aveva letto il libro e voleva pubblicarlo. Solo che, avendo raccontato di questa mia iniziativa a varie persone, quando Cavallero si è presentato al telefono io lì per lì ho pensato che fosse un amico che mi faceva uno scherzo e stavo per mandarlo a quel paese! »
Davvero?
«Giuro, e infatti stavo a sentire un orecchio sì e uno no, come dire “vediamo questo bischero fin dove arriva”. Poi però parlando ha cominciato a dire delle cose troppo dettagliate, per cui ho cominciato a pensare “vuoi vedere che è davvero Cavallero”? E infatti era proprio lui! Per farla breve, dopo un paio di settimane ho firmato il contratto per tutti e cinque i libri già pronti.
In pratica il sogno di ogni scrittore!»
Davvero, incredibile.
Una cosa che si capisce bene, leggendo i tuoi libri, è che sai perfettamente di cosa stai parlando per cui ti chiedo ma tu, in Eritrea, quanto tempo hai vissuto?
«Allora, diciamo che ci sono stato tante volte per periodi di due, tre settimane. Poi a me, quando viaggio, piace documentarmi, conoscere la storia. Ho anche tanti conoscenti che vivono sul posto per cui ho una narrazione ampia che mi supporta, oltre ad aver avuto, nella mia vita da Professore, tanti studenti Etiopi ed Eritrei. Diciamo che mettendo insieme le varie missioni, tra Etiopia ed Eritrea, avrò vissuto sul posto un anno e mezzo.»
Però! Te l’ho chiesto perché si nota una conoscenza molto approfondita della cultura locale.
«Diciamo che sono un buon osservatore. E poi, non so se ti avevo già raccontato, ma con mia moglie abbiamo anche messo in piedi una associazione di volontariato, in Etiopia, una ODV con cui ci occupiamo di combattere il matrimonio precoce delle ragazzine che, specialmente nelle zone rurali, in cui magari non hanno i mezzi per mandarle a scuola, a 12, 13 anni vengono fatte sposare per mandarle via di casa. Dal 2020 c’è stato prima il Covid, poi un’orrenda guerra civile fra il Tigray, la regione del nord di cui Macallè è la capitale, e il governo centrale di Addis Abeba, ma fino ad allora andavamo giù tutti gli anni. Diciamo che fra il 1994 e il 2019, con una pausa fra il 1996 e il 2007, più o meno una o due volte l’anno sono tornato in quei luoghi.»
E invece riguardo alla idea alla base della tua ucronia, ossia la battaglia di Adua, quella che sia stato un punto di svolta così cruciale per la nostra storia è una idea tua o c’è qualcosa che ti ha ispirato?
«Allora, iniziamo col dire che la battaglia di Adua è una delle più studiate dagli storici italiani. Per esempio, grazie a questa storia della battaglia di Adua è nata una grande amicizia con Michele Navarra, che è un avvocato penalista e autore di una serie di Legal Thriller con protagonista l’avvocato Gordiani.»
Un po’ alla Carofiglio?
«Sì, un po’ alla Carofiglio diciamo. Navarra ha due lauree, una in Legge e una in Storia, e in Storia si è laureato con una tesi proprio sulla battaglia di Adua. Per cui quando ci siamo conosciuti è nata immediatamente una sorta di fratellanza.
Perché la battaglia di Adua, devi sapere, se si va a vedere lo svolgimento delle operazioni militari di quella giornata lì, è stato proprio un filotto di errori incredibili, ma proprio marchiani, una specie di concentrato dei nostri peggiori vizi nazionali: cialtronaggine, razzismo, ambizione, presunzione, incompetenza, e chi più ne ha più ne metta, di cui si sono rese responsabili le nostre forze di comando. E nonostante questo incredibile numero di errori, siamo stati lì lì per vincerla lo stesso. Per cui se per assurdo si dovesse andare a ricombatterla per bene cento volte, probabilmente non la perderemmo mai, o sicuramente non in quel modo! »
E secondo te questa è stata una Sliding Door?
«Diciamo che se l’Italia avesse vinto la battaglia di Adua, sicuramente la colonia in Eritrea si sarebbe espansa parecchio verso sud, inglobando una zona che da un punto di vista agricolo era molto promettente.
Ora noi siamo figli di una cultura che ci insegna che la storia è mossa da agenti economici, forze imponenti di fronte alle quali il singolo episodio sembra poter incidere fino a un certo punto, invece secondo me non è del tutto vero, ci sono dei catalizzatori.
Prendi Hitler, o Napoleone, o anche Berlusconi: se non ci fosse stato il personaggio giusto al momento giusto… Sì, certo, poi dietro Hitler c’era l’industria bellica, la Repubblica di Weimar e il contesto storico, però senza quell’agente, quel catalizzatore, la storia avrebbe forse preso una piega diversa.
Lo stesso per le battaglie, se nella battaglia di Waterloo i prussiani fossero arrivati mezz’ora dopo, Napoleone magari avrebbe vinto. E se a Waterloo avesse vinto Napoleone cosa sarebbe successo? C’è un mondo di appassionati di ucronia che dibatte su punti come questi. La battaglia di Adua, una vera catastrofe nazionale, è stata davvero un tiro di dadi; in Italia cadde il governo Crispi, con la fine dell’esperienza di governo della destra storica.
Poi, se l’Italia non avesse perso, questa colonia avrebbe quasi raddoppiato le sue dimensioni, in un Mar Rosso che si avviava ad essere un crocevia commerciale strategico in anni in cui nella penisola arabica cominciava il boom petrolifero: ci sarebbe stato tutto un altro percorso. Poi ovvio che da questo alla neutralità durante la prima guerra mondiale il passo è lungo, ma lì diciamo che entra di mezzo anche la fantasia del romanziere.»
Che è anche un po’ una salvaguardia, no?
«Ma sì, perché quando si scrivono romanzi storici c’è poi tutta una schiera di lettori particolari, specializzati, preparatissimi, pronti ad analizzare punto per punto il romanzo alla ricerca dell’errore anche minimo, mentre così, trattandosi della fantasia dell’autore, diciamo che mi sento relativamente al sicuro.»
Ma sei andato anche a vedere i luoghi dove è stata combattuta?
«Sì, ci sono stato per curiosità mia ma anche perché ci passi per forza andando ad Axum, la capitale del mitico regno della regina di Saba. Sono posti incredibili. Devi sapere che la prima volta che sono arrivato in Eritrea ho avuto una sorta di shock culturale! Quando arrivi all’Asmara trovi i negozi così (siamo in un caffè storico di Bologna, ndr), sembra di essere in Italia!»
A me leggendo il libro ha colpito il fatto degli spaghetti!
«Sì infatti, tu pensa che uno dei piatti più diffusi sono le tagliatelle al ragù, per dire l’influenza della cultura italiana. Che è rimasta fino ad oggi, non è scomparsa. Come ti dicevo, come reazione a questo shock culturale mi misi a leggere tutto quello che potevo trovare sulla storia degli italiani in Africa Orientale, e in questo non puoi fare a meno di imbatterti nella battaglia di Adua. Sono arrivato anche a ricostruirmi sulle mappe tutti gli spostamenti delle colonne del nostro corpo di spedizione, a verificare i rilievi, le distanze, per capire come sia stato possibile una cosa del genere. Diciamo che la battaglia di Adua per me è un po’ la battaglia ideale per rappresentare una Sliding Door, e che da questa idea poi è nato il commissario Campani.»
Che tu hai voluto dipingere come una persona molto normale.
«Sì, da lettore di gialli diciamo che non ne potevo più dei commissari problematici, oscuri, con i demoni interiori. Ho voluto mettere una persona normale, con una moglie normale e una situazione familiare confortevole.»